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LA METAMORFOSI DEL MONDO ROMANO E LA FINE DELL'IMPERO IN OCCIDENTE I due secoli precedenti alla caduta dell'impero romano d'Occidente nel 476 sono stati caratterizzati da una profonda trasformazione. A partire dal III secolo l'impero subì gli attacchi delle popolazioni che mettevano in pericolo i confini settentrionali e orientali. Le modifiche più importanti che si registrarono nel mondo romano riguardavano la diffusione del cristianesimo, la minaccia dei “barbari”, le differenze tra Occidente e Oriente e il crescente divario tra ricchi e poveri. Nel III secolo i territori dell'impero romano si estendevano lungo le coste del Mediterraneo, in Europa occidentale (fino alla Scozia) e in Asia fino alla Mesopotamia. Il ceto dominante era un'aristocrazia ristretta proveniente dalle città, dotata di grandi patrimoni fondiari. Il ruolo di questa classe sociale cominciò ad essere minacciato dall'ascesa dei plebei che si stavano arricchendo tramite il commercio e i prestiti. Le guerre di espansione territoriale erano ormai finite e gli unici scontri militari dell'impero cominciarono ad essere per la difesa dei confini a causa della minaccia delle popolazioni che spingevano da nord-est (che spinse l'imperatore Aureliano a cingere Roma con delle mura difensive, nonostante gli scontri fossero molto lontani dalla capitale). Con la mancata espansione dei territori l'economia dell'impero cominciò a ristagnare e si cercò di porre riparo alla decrescita degli introiti con una maggiore pressione fiscale. La necessità di difesa dei confini e i crescenti costi per il mantenimento dell'impero spinsero gli imperatori a promuovere alcune riforme. L'aumento della pressione fiscale comportò un'espansione dell'apparato burocratico dell'impero dando vita alla macchina statale, un'organizzazione politica accentrata che nei secoli successivi ispirò le monarchie nazionali. Ci fu un cambio anche in ambito sociale: all'aristocrazia senatoria si sostituirono degli uomini nuovi, provenienti dall'esercito. Le crescenti imposte, oltre ad aumentare il divario tra ricchi e poveri, spinsero sia gli uni che gli altri a cercare dei modi per potersi sottrarre dal pagamento dei tributi. I piccoli centri urbani si svuotarono e molti si spostarono nelle campagne favorendo la localizzazione dell'aristocrazia. A favorire questo processo furono il ruolo dei vescovi come punti di riferimento delle varie località e l'ampliamento del ceto dominante. Il risultato fu una società maggiormente ancorata alla dimensione locale. In questo clima di decentramento politico nel IV secolo l'imperatore Costantino divise l'impero tra Occidente e Oriente, la cui capitale divenne Costantinopoli. Con il concilio di Calcedonia nel 451 venne dichiarata pari dignità tra i vescovi di Roma e quelli di Costantinopoli. La situazione dell'impero d'Oriente era diversa da quella d'Occidente: l'economia orientale era basata soprattutto sul commercio e sulla produzione ed era ancora fiorente, nonostante la pressione fiscale. Per questo motivo, a differenza di quanto accaduto nella parte occidentale dell'impero, i contadini non si trovarono costretti a fuggire nelle campagne (con la speranza di evitare gli esattori) dove andavano incontro al lavoro forzato per conto dei grandi proprietari terrieri e non si venne a creare l'aristocrazia locale. Nel V secolo le invasioni si fecero più aggressive (sacco di Roma nel 410 da parte dei visigoti) e i due imperi optarono per due soluzioni diverse: ad Oriente si procedette con l'epurazione dei barbari dall'esercito, nel quale erano entrati circa due secoli prima, mentre ad Occidente si concesse alle popolazioni barbare di stanziarsi nel territorio imperiale. Nel 476, dopo la deposizione dell'imperatore Romolo Augustolo, il re barbaro Odoacre non rivendicò il titolo imperiale. Le trasformazioni iniziate nel III secolo sono state considerate dagli storici in modi diversi. C'è chi ha individuato in quei cambiamenti la fine della classicità e quindi considerati in modo negativo e chi li ha considerati come un progresso. Secondo Edward Gibbon la crisi dell'impero fu data dalla diffusione del cristianesimo, una religione che ha pesantemente indebolito lo spirito bellicoso ed espansionistico dell'impero. Un ruolo importante lo ha avuto l'economia: si è infatti passati da una struttura produttiva basata sulla schiavitù ad una fondata sul feudalesimo.
IL CRISTIANESIMO: LE CHIESE EPISCOPALI E IL MONACHESIMO DELLE ORIGINI Il cristianesimo si diffuse inizialmente presso l'aristocrazia dei centri urbani dell'impero romano. Il successo che riscosse presso il ceto dominante e la sua organizzazione gerarchica fecero sì che la nuova religione ricoprisse un ruolo di importanza centrale nell'impero che andava sgretolandosi. La diffusione del cristianesimo ebbe inizio nelle città e in seguito si verificò anche nelle campagne e presso le popolazioni barbariche. Il processo di cristianizzazione seguì due vie: una istituzionale, basata sulla presenza di chiese urbane e di una gerarchia sacerdotale che si fece carico di evangelizzare le campagne; l'altra individuale, basata sull'attività dei monaci che si organizzarono nei monasteri, dandosi una propria struttura sociale, culturale ed economica. Fu grazie al lavoro svolto dai monaci che il cristianesimo venne accolto anche tra le popolazioni barbariche stanziate ai confini dell'impero. La cristianizzazione è stata un processo di acculturazione e di integrazione reciproca fra le etnie in transito nel territorio europeo e quelle facenti parte dell'impero. Il cristianesimo era la più importante delle religioni salvifiche che stavano muovendo i primi passi a partire dal I secolo. La possibilità di salvezza per una vita ultraterrena fece sì che il culto cristiano fosse abbracciato dall'aristocrazia romana. In quello stesso periodo andarono formandosi le prime comunità cristiane, organizzate gerarchicamente e capeggiate da un vescovo. Nel IV secolo il cristianesimo divenne religione di stato: nel 314 l'imperatore Costantino concesse ai cristiani la libertà di culto (editto di Milano) e nel 380 l'imperatore Teodosio impose a tutti i cittadini la professione della religione cristiana (editto di Tessalonica). Con le riforme di questi due imperatori le gerarchie ecclesiastiche si sostituirono alle cariche pubbliche che avevano caratterizzato il mondo romano nei secoli precedenti. Nel V secolo partì dalle città un'opera di evangelizzazione delle campagne. Vennero fondate le pievi, chiese battesimali controllate dai vescovi, e istituite le diocesi, ovvero i territori di influenza di ciascun vescovo. Ma l'evangelizzazione è stato un processo di reciproco scambio tra culture diverse: alcuni culti delle campagne non scomparvero ma influirono sul risultato dottrinale del cristianesimo (si affermarono alcuni aspetti vicini alla sensibilità popolare, come ad esempio il culto dei santi). I vescovi delle città più importanti dell'impero ottennero maggiore importanza rispetto a quelli delle città minori: un prestigio particolare era connesso alla figura del vescovo di Roma, anche se inizialmente questo primato fu contrastato dai vescovi delle altre grandi diocesi. In seguito alla diffusione del cristianesimo nelle città, in Oriente si sviluppò il fenomeno del monachesimo: si tratta di una scelta individuale di ricerca della redenzione attraverso il sacrificio, l'ascesi e l'allontanamento dai centri urbani. Alcune manifestazioni estreme di questo fenomeno diedero vita ai monaci eremiti. In Occidente il monachesimo si sviluppò dopo l'editto di Tessalonica, in una forma diversa da quella orientale. I monaci occidentali criticavano l'individualismo degli eremiti e introdussero delle regole di vita comunitaria. Nacque così il cenobitismo, ossia la vita in comune dei monaci sulla base di regole condivise. I primi monasteri si formarono in Gallia e in Italia. Anche in Irlanda, che non era mai stata assoggettata all'impero romano e aveva una struttura tribale e non urbanizzata, si diffuse quasi subito il cristianesimo e nacquero i primi monasteri. Nel VI secolo il monachesimo raggiunse il suo culmine con la fondazione dei monasteri di Benedetto da Norcia, la cui regola prevedeva ore dedicate alla preghiera e al lavoro. I monaci svolsero un ruolo fondamentale nella conversione delle popolazioni barbariche, che si mostrarono anch'esse sensibili al messaggio salvifico del cristianesimo. La strategia utilizzata dai monaci fu quella di convertire prima le aristocrazie militari e i capi delle tribù barbare, i quali erano investiti di un carattere sacrale e avrebbero facilitato la diffusione del loro stesso credo presso i popoli. Le aristocrazie colsero l'occasione per intraprendere carriere ecclesiastiche conservando il proprio potere economico e sociale. Questo processo fece sì che si diffondesse la cultura latina presso le popolazioni straniere. Le popolazioni germaniche abbracciarono la dottrina ariana (condannata dal concilio di Nicea del 325 e definita come eresia) perché i primi monaci ad entrare in contatto con loro erano ariani. Internamente al cristianesimo ci furono dei contrasti dottrinali: il problema era di stabilire la natura di Cristo. L'imperatore Costantino convocò un'assemblea di vescovi a Nicea che condannò la dottrina ariana (secondo la quale Cristo era subordinato a Dio) e investì l'imperatore del ruolo di difensore della fede secondo i dettami del concilio. Altre due dottrine erano il nestorianesimo (secondo cui Cristo era umano) e il monofisismo (secondo cui Cristo era divino). Il concilio di Calcedonia del 451 trovò un compromesso tra queste due dottrine (doppia natura di Cristo, umana e divina). L'imperatore Zenone nel 482 emanò un editto in cui sanciva l'abbandono del monofisismo da parte della chiesa di Costantinopoli, editto mal tollerato da Siria e Egitto che erano monofisiste. Nel 544 l'imperatore Giustiniano, con un altro editto, riabbracciò il monofisismo ed escluse il nestorianesimo con l'intento di trovare l'appoggio di Siria e Egitto per la campagna di riconquista delle regioni mediterranee e riportarle sotto il controllo dell'impero. Tuttavia i vescovi occidentali non accolsero il nuovo editto. In Occidente la sede di Roma riuscì, nei secoli successivi a guadagnarsi la supremazia sulle grandi diocesi concorrenti. Ad Oriente, invece, la sede di Costantinopoli non riuscì ad ottenere lo stesso risultato.
LE INVASIONI E I REGNI ROMANO-BARBARICI A partire dal IV secolo si verificò un'ondata di migrazioni di nuove tribù nomadi provenienti dall'Eurasia che spinsero i popoli che si erano stanziati ai confini dell'impero ad entrare in territorio romano. Queste migrazioni portarono alla caduta dell'impero romano d'Occidente e alla formazione di nuovi regni. Tutta l'età tardo-antica è stata caratterizzata da conflitti fra i romani e le popolazioni stanziate oltre i confini dell'impero, i “barbari”. Il termine aveva un'accezione negativa e stava ad indicare tutte quelle popolazioni che, seppur diverse tra loro, erano accomunate dal fatto di non essere romane (i greci chiamavano barbari coloro che non parlavano il greco o il latino ma delle lingue per loro incomprensibili). Ci volle del tempo perchè queste tribù riuscissero a costruirsi una propria identità etnica e culturale (processo di etnogenesi). Le invasioni barbariche possono essere viste sia come uno scontro tra due mondi diversi che come una migrazione di popoli che ha favorito lo sviluppo della cultura europea. Nei secoli precedenti agli spostamenti delle tribù nomadi che minacciarono l'impero non era raro che i guerrieri barbari venissero assoldati nell'esercito romano. L'equilibrio tra il mondo romano e quello barbaro entrò in crisi nel IV secolo, quando l'impero mostrò i primi segno di indebolimento politico ed economico. Le popolazioni stanziate ai confini imperiali cominciarono a spingersi all'interno del territorio dell'impero per stanziarvisi, a causa della spinta che altre popolazioni esercitavano da Oriente (in particolare degli unni, provenienti dall'Asia centrale). Gli spostamenti coinvolsero anche i goti, che si stanziarono nei balcani e si divisero in visigoti nella parte occidentale della regione e ostrogoti nella parte più orientale. I visigoti ottennero un'importante vittoria contro l'imperatore d'Oriente ad Adrianopoli: la sconfitta dell'impero indusse gli imperatori romani ad abbandonare la strategia militare. Venne scelta una strategia di contenimento basata su due sistemi: l'hospitalitas (indipendenza e concessione di un terzo delle terre dove i barbari si stanziavano in cambio della fedeltà all'impero e di appoggio militare) e la foederatio (alleanza con l'impero in cambio di un compenso). Tuttavia le razzie non ebbero fine e molte popolazioni continuarono a compiere incursioni ai confini dell'impero: vandali, alani, svevi e burgundi oltrepassarono il Reno e si scontrarono con i franchi e gli alamanni, che avevano usufruito della foederatio. Solo i burgundi riuscirono a stabilirsi in Gallia, mentre le altre tribù furono costrette a ripiegare nella penisola iberica. Nel 410 i visigoti guidati da Alarico arrivarono in Italia e furono artefici del famoso sacco di Roma. Successivamente si spostarono nella Gallia meridionale ma vennero respinti nella penisola iberica da vandali e franchi. La superiorità militare dei visigoti permise loro di creare un dominio stabile su gran parte della Spagna, relegando gli alani in Portogallo, gli svevi in Galizia e i vandali nel nord Africa. Nello stesso periodo la Britannia fu preda delle scorrerie dei pitti provenienti dalla Scozia e degli juti, angli e sassoni provenienti dai territori germanici. Nel 450 gli unni guidati da Attila riuscirono ad arrivare alle porte di Roma ma furono convinti a tornare indietro dal papa Leone I (in cambio di un riscatto piuttosto che per una questione di fede). Nel 476 i barbari guidati dal re sciro Odoacre scesero in Italia e deposero l'ultimo imperatore Romolo Augustolo. Caduto l'impero d'Occidente Odoacre divenne re e assunse il titolo di rex, una carica che simboleggiava il coraggio e il valore dimostrato in battaglia. Per recuperare i territori italiani caduti in mano ai barbari l'imperatore d'Oriente Zenone si avvalse del sistema della foederatio e favorì l'irruzione in Italia degli ostrogoti guidati da Teodorico. I regni che si erano formati alla fine del V secolo sono detti regni romano-barbarici e si caratterizzavano per la fusione tra la tradizione politico-istituzionale romana e l'organizzazione sociale dei popoli barbarici. In tutti i territori conquistati i barbari erano in minoranza rispetto alla popolazione autoctona. Il problema della convivenza fu risolto mantenendo le tradizioni giuridiche e amministrative precedenti, affiancate alle tradizioni barbariche. Vennero elaborate delle leggi scritte in latino ma non è chiaro se esse valevano per tutta la popolazione del regno o solo per gli appartenenti all'etnia barbarica che lo aveva costituito. Il processo di reciproca acculturazione è simboleggiato anche dal fatto che le attività amministrative rimasero nelle mani dei romani mentre l'attività militare divenne prerogativa dei barbari. Il re, il cui potere era considerato sacrale, era depositario del banno (il potere coercitivo assoluto) e rappresentava per lo più una guida militare. Soltanto i partecipanti alla vita militare erano considerati cittadini e uomini liberi e godevano di diritti politici (cioè potevano eleggere il re). I franchi che si erano stanziati nella Gallia centro-settentrionale erano un insieme di tribù sparse che godevano della foederatio romana. Il regno franco si formò grazie al re Clodoveo (della famiglia dei merovingi, discendenti del leggendario Meroveo) che unì i regni di Neustria, Austrasia e Burgundia (strappata ai burgundi). Clodoveo stabilì dei rapporti stretti con la chiesa di Roma: si convertì al cristianesimo e si fece difensore della chiesa. Inoltre, fece redigere la legge salica che legittimava la sua posizione di sovrano. Dopo la sua morte il regno franco venne spartito tra gli eredi come se fosse un bene patrimoniale. In Britannia, gli anglosassoni si stabilirono nella parte orientale mentre i britanni si ritirarono nella parte occidentale (Wales → Welsch → “non germani”). In Italia, per volontà bizantina, erano giunti gli ostrogoti. Teodorico ricoprì il doppio ruolo di rex (legittimato dalla vittoria su Odoacre) e di comandante sotto l'autorità imperiale. Con la sua morte si accese la lotta per la successione, di cui l'imperatore Giustiniano approfittò per riappropriarsi della penisola italiana. Il regno dei visigoti in Spagna durò fino all'invasione islamica dell'VIII secolo. Essi instaurarono una società multietnica e religiosamente tollerante, a differenza dei vandali che perseguitarono i non ariani. Il regno dei vandali cadde per mano dei bizantini nel V secolo.
L'IMPERO ROMANO D'ORIENTE L'impero romano d'Oriente non seguì la stessa sorte della parte occidentale. Il VI secolo fu segnato dall'azione politica dell'imperatore Giustiniano, che si pose l'obiettivo di riconquistare i territori caduti in mano alle popolazioni barbariche (o almeno il bacino mediterraneo). L'obiettivo fu raggiunto solo parzialmente. L'azione militare bizantina cominciò con la conquista dell'Africa settentrionale occupata dai vandali per poi strappare parte della Spagna meridionale ai visigoti. L'esercito imperiale guidato dai generali Narsete e Belisario si diresse in Italia per attaccare gli ostrogoti, con i quali i rapporti si erano incrinati dopo la morte di Teodorico (che aveva mantenuto un riconoscimento formale dell'autorità imperiale). La guerra greco-gotica si concluse dopo una ventina d'anni con la vittoria dei bizantini ai danni del re ostrogoto Totila. Nel 553 Giustiniano riuscì a riconquistare tutti i territori che si affacciavano sul Mediterraneo ma si trattava di un territorio semidistrutto e quasi spopolato. Inoltre il successo durò molto poco: nel 568, dopo la morte di Giustiniano, l'Italia fu occupata dai longobardi e poco dopo gli arabi affermarono la loro egemonia sul Mediterraneo. L'imperatore Giustiniano si fece promotore di una riforma del diritto. Il diritto romano non era ancora stato codificato e le leggi erano soggette a interpretazioni da parte dei giuristi. Un sistema complesso che venne semplificato con l'elaborazione del corpus iuris civilis, una raccolta di materiale giuridico con la quale venivano codificate le leggi vigenti in età repubblicana. Tuttavia la codificazione, oltre a semplificare il sistema di leggi, toglieva la possibilità ai magistrati di adattare il diritto alle diverse situazioni della realtà sociale. Terminata la guerra greco-gotica Giustiniano estese il corpus iuris civilis anche ai territori riconquistati. L'organizzazione amministrativa che venne adottata in Italia fu quella tipica degli ultimi anni dell'impero d'Occidente. Tuttavia questo provvedimento incontrava molti ostacoli: le classi sociali tipiche degli anni dell'impero stavano scomparendo, i goti si erano ben inseriti nella società e gli alti vertici delle gerarchie ecclesiastiche detenevano un potere effettivo nelle città. La cultura si era addensata nei monasteri. L'equilibrio che l'impero d'Oriente raggiunse grazie all'opera di Giustiniano durò poco. Le difficoltà finanziarie, la distanza geografica tra le varie province e le diversità etniche, culturali e religiose rendevano difficili gli interventi del potere centrale nelle varie regioni. Nel VI secolo ci fu una nuova ondata di incursioni da parte di popolazioni nomadi. Nel 568 i longobardi riuscirono a conquistare gran parte della penisola italiana. Agli inizi del secolo successivo gli slavi e gli avari penetrarono nella penisola balcanica, i visigoti scacciarono i bizantini dalla penisola iberica e i persiani spingevano da Est. Nel VII secolo l'imperatore Eraclio riuscì a sconfiggere i persiani ma perse Siria e Palestina, conquistate dagli arabi. In Italia i bizantini dovettero fare i conti con l'occupazione dei longobardi, che riuscirono a conquistare la parte settentrionale, la Toscana e gran parte della parte meridionale. Con l'occupazione longobarda ebbe iniziò la frattura politica che accompagnò la penisola italiana fino al XIX secolo. I territori italiani rimasti in mano ai bizantini vennero riorganizzati dal punto di vista amministrativo: venne istituita la figura dell'esarca, che riuniva in sé tutte le funzioni pubbliche, amministrative, civili e militari. L'esarca esercitava il suo potere su tutti i territori, governati localmente dai duchi. Tuttavia i ducati si resero indipendenti e l'autorità del papa entrò in conflitto con quella dell'impero bizantino (anche a causa dell'alleanza che venne stretta dal papa con i franchi). Nel IX secolo la Sicilia cadde in mano agli arabi. Il tentativo di riconquistare i territori meridionali in mano ai longobardi fallì anche a causa dell'arrivo dei normanni nell'XI secolo. La presenza bizantina in Italia scomparve del tutto ma si trattava di una scomparsa solo politica e militare: l'impero d'Oriente nei secoli precedenti aveva influenzato la civiltà e la cultura della penisola.
I LONGOBARDI E LE DUE ITALIE I longobardi erano una popolazione germanica che valicò le Alpi nella seconda metà del VI secolo e conquistarono una grossa fetta della penisola italiana (specialmente nella parte settentrionale), strappando porzioni di territorio ai bizantini. Il loro regno durò circa due secoli e la loro presenza in Italia ruppe l'unità politica e culturale che si era formata. Nei secoli precedenti i longobardi si erano stanziati ai confini dell'impero bizantino. Nel 568, sotto la guida del re Alboino, i longobardi arrivarono in Italia settentrionale. Si trattava di un gruppo di persone unite dalla credenza di provenire dalla Scandinavia (anche se si trattava soltanto di un mito). I longobardi erano un popolo altamente legato all'attività della guerra. Il ceto dominante era un'aristocrazia guerriera e il re era privo di potere sacrale (a differenza degli altri re barbari) ma rappresentava semplicemente una guida militare elettiva. Gli arimanni (gli uomini liberi, coloro che facevano parte dell'esercito) erano gli unici a poter eleggere il re; gli altri erano servi, che lavoravano i campi ed erano privi di diritti. Durante gli spostamenti si organizzavano nelle fare, dei piccoli raggruppamenti familiari con funzioni di unità militare, con a capo dei duchi (che avevano anche il compito di fare da intermediari tra il re e gli arimanni). La cristianizzazione dei longobardi era superficiale ed era ancora legata alla dottrina ariana. L'avanzata longobarda non incontrò particolare resistenza da parte dei bizantini, già impegnati militarmente contro gli avari alle porte della Turchia e contro i persiani a Est. Nel 572 i longobardi conquistarono Pavia e ne fecero la loro capitale. Nello stesso anno morì il re Alboino. Secondo lo storico Paolo Diacono, la morte del re fu ordinata da sua moglie Rosmunda perché costretta dal marito a bere dal cranio di Cunimondo, precedentemente sconfitto da Alboino (i nuovi re longobardi legittimavano il proprio potere con l'atto di bere dal cranio di colui che avevano spodestato; in tal modo Alboino perse legittimità agli occhi della moglie). Per i dieci anni successivi non fu eletto alcun re a causa dei contrasti per la successione al trono. In questo periodo alcune tribù longobarde conquistarono alcune zolle dell'Italia meridionale, senza continuità territoriale con i loro possedimenti a Nord, i cui centri principali erano Spoleto e Benevento. I longobardi sconvolsero la tradizione politico-amministrativa precedente ma successivamente si fusero con la popolazione autoctona e formarono una società mista. Con il matrimonio tra Teodolinda (figlia del duca di Baviera) e Agilulfo (duca di Torino), quest'ultimo divenne re. La regina Teodolinda era cattolica ma aveva aderito allo scisma dei Tre Capitoli con il quale alcuni vescovi non accettarono la decisione dell'imperatore Giustiniano di condannare il nestorianesimo. Sotto la guida di questa regina i longobardi instaurarono un rapporto di dialogo con la chiesa di Roma. Nel VII secolo il regno longobardo vide un rafforzamento dei poteri regi: il titolo di re longobardo acquistò maggior prestigio e i duchi si trasformarono in funzionari del regno. L'organizzazione territoriale si caratterizzò per la formazione dei ducati, che in alcune città avevano un'importanza strategica (Spoleto e Benevento condussero una politica autonoma nei rapporti con l'impero bizantino e la Chiesa). I duchi assunsero sempre di più un ruolo politico nelle realtà locali ed erano affiancati da funzionari minori che controllavano le campagne. Nel 643, per volontà del re Rotari, venne promulgato un codice scritto delle leggi e delle tradizioni longobarde, l'editto di Rotari. L'editto era indirizzato soltanto ai longobardi ma il fatto che venisse introdotto un codice scritto, per di più in latino, segnò una svolta nell'incontro tra la cultura barbara e quella romana. L'editto di Rotari proibì la faida, ovvero l'usanza di farsi giustizia privatamente nei confronti di un'altra famiglia a seguito di un torto subito. Nell'VIII secolo si affermò definitivamente una società etnicamente mista. Sotto il regno di Liutprando venne avviata una nuova fase di espansione che portò i longobardi alla conquista di Sutri, alle porte di Roma. Tuttavia la zona fu liberata in seguito alle richieste del papa: questo episodio è stato interpretato come l'atto costitutivo del potere temporale dei papi, che minacciavano sempre di più l'autorità politica bizantina a Roma e nei territori laziali. Pochi anni più tardi fu redatta la “donazione di Costantino”, un documento falso secondo il quale l'imperatore Costantino avrebbe donato i territori occidentali dell'impero alla Chiesa. Si trattava di un tentativo da parte dei vescovi di Roma di assumere la guida dei territori bizantini in Italia. Dalla seconda metà dell'VIII secolo l'alleanza tra la Chiesa e i franchi portò alla caduta dei longobardi e alla fine della presenza bizantina in Italia. Nel 751 il re Astolfo riuscì a conquistare Ravenna ma papa Stefano II siglò l'alleanza con la dinastia franca dei pipinidi e chiese il loro intervento. Il re Pipino il Breve riuscì a riconquistare i territori occupati dai longobardi, a vantaggio della chiesa di Roma. L'ultimo re longobardo, Desiderio, tentò di stringere buoni rapporti con i franchi dando in sposa sua figlia Ermengarda al figlio di Pipino il Breve, Carlo (successivamente Magno) ma quest'ultimo la ripudiò per accogliere le richieste di papa Adriano I di spazzare via i longobardi. Con la conquista di Pavia i longobardi scomparvero dall'Italia settentrionale. A Benevento i longobardi sopravvissero fino all'invasione dei normanni nell'XI secolo.
L'IMPERO ARABO-ISLAMICO Nel VII secolo nella penisola araba si sviluppò una forza politica legata al nuovo monoteismo predicato dal profeta Maometto, che convertì tutta la popolazione araba. I suoi successori, i primi quattro califfi, estesero le conquiste in Egitto e in medio-oriente. I loro successori, i califfi della dinastia omayyade, continuarono l'opera di conquista (estendendosi ulteriormente ad Est e ad Ovest arrivando in Nord Africa e in Spagna) e fecero di Damasco la loro capitale. La successiva dinastia, quella abbaside, spostò la capitale a Baghdad e rinsaldò l'impero dal punto di vista amministrativo, formando una serie di regni locali autonomi che sopravvissero anche alla caduta dell'impero nel 945 e diedero un grande contributo alla tradizione religiosa, politica e culturale araba. Una parte della penisola araba era detta “arabia felix” per la sua fertilità e ricchezza d'acqua. Questa zona si caratterizzava per un'intensa attività di intermediazione commerciale fra l'India, le regioni mesopotamiche, l'Africa e il Mediterraneo. La strutta politica era di tipo monarchico. Nelle zone desertiche i beduini vivevano di allevamento, di commercio carovaniero e di razzie. Essi si riunivano in tribù capeggiate un membro eletto al loro interno. La religione era di tipo politeista, anche se non mancava l'influenza dell'ebraismo e del cristianesimo. Pratica diffusa era quella del pellegrinaggio in luoghi sacri: il più importante era La Mecca, dove era situata la Ka'ba (un edificio cubico che sarebbe stato costruito da Abramo per custodire la Pietra Nera che l'arcangelo Gabriele avrebbe portato sulla terra). La predicazione di Maometto modificò la realtà araba precedente. Esortato alla predicazione, secondo la leggenda, dall'arcangelo Gabriele, egli inizia a diffondere il messaggio dell'islam (ovvero la totale sottomissione e adorazione ad Allah). La nuova religione si diffonde tra i poveri e gli schiavi ma trova una forte opposizione tra i quraishiti, coloro che gestivano il traffico dei pellegrini a La Mecca. Essi si resero artefici di persecuzioni ai danni dei primi fedeli, che furono costretti all'emigrazione (égira). Maometto si rifugia a Medina, dove continua la sua predicazione e compatta le fila musulmane. L'islam si diffonde anche tra i beduini, le cui razzie danno forza e prestigio al culto musulmano. Nel 630 Maometto e il suo esercito di fedeli conquistano La Mecca e ne fanno la loro città sacra. Alla morte di Maometto tutta la penisola è unita sotto il segno dell'islam. Alla base della nuova religione c'è il Corano, il testo sacro che stabilisce le norme di buona condotta per il rispetto della fede musulmana. Il buon musulmano deve professare la fede, pregare, pagare l’elemosina stabilita per legge, digiunare durante il ramadam, compiere almeno una volta nella vita il pellegrinaggio a La Mecca e promuovere la jihad (ossia sostenere la guerra nei confronti dei nemici dell'islam). Dopo la morte di Maometto, sotto la dinastia degli omayyadi, l'islam si caratterizza per la politica espansionistica. Le cause dell'espansionismo arabo sono da individuare nella debolezza degli imperi circostanti e nella preferenza delle popolazioni assoggettate di un dominio lontano e neutrale. L'impero arabo era anche privo di contrasti interni tra autorità civili e religiose. Dopo aver conquistato gran parte del medio-oriente e dell'Asia centrale gli arabi si spingono oltre lo stretto di Gibilterra e occupano la Spagna. Due sconfitte impedirono all'islam di invadere il mondo cristiano: nel 718 l'imperatore Leone III Isaurico fermò gli arabi alle porte di Costantinopoli e nel 732 il franco Carlo Martello li sconfisse a Poitiers. Gli arabi conquistarono anche la Sicilia, garantendosi una posizione favorevole nel Mediterraneo. Le relazioni fra arabi ed europei non furono soltanto di tipo militare. L'Europa poté beneficiare dell'influenza di una cultura contraddistinta dalla tolleranza (gli arabi non tentavano di convertire le popolazioni dominate, in quanto il Corano proibisce la conversione forzata). La fusione tra culture diverse favorì lo sviluppo di grandi opere architettoniche, artistiche, filosofiche e culturali e aiutò la scienza a progredire in campo medico, astronomico e matematico. Nuove coltivazioni vennero introdotte in Europa e la piccola proprietà contadina si sostituì al latifondo. Nel Mediterraneo gli arabi furono temuti soprattutto per la pirateria. Con il loro definitivo stanziamento sulle coste nordafricane venne meno l’unità mediterranea, come ha sottolineato lo storico Henry Pirenne: una frattura che accelera la ruralizzazione del mondo europeo, che sembra ritirarsi per un periodo lungo dalle sponde del mare dominato per secoli.
I FRANCHI E L'EUROPA CAROLINGIA La notte di Natale dell'800 il re dei franchi Carlo Magno venne incoronato imperatore da papa Leone III. Con questa incoronazione nacque un nuovo impero, quello carolingio, che si estendeva dalla Catalogna all'Italia centrale e riuniva i territori cristiani dell'Europa occidentale sperimentando la fusione della tradizione germanica con quella romana. Alla morte di Clodoveo, nel 511, il regno fu spartito tra i suoi eredi (non era prevista la preferenza nei confronti del primogenito e il regno veniva considerato come un patrimonio personale del sovrano). Nonostante la divisione in quattro parti del loro regno, i franchi conquistarono nuovi territori estendendosi quasi per tutta la Gallia. La presenza di forti poteri locali e la crescente importanza dei centri urbani, dove risiedeva l'aristocrazia franca, portò al consolidamento di una rete di fedeli attorno alla figura del sovrano. La presenza dei vescovi appartenenti all'aristocrazia gallo-romana favorì il mantenimento delle strutture amministrative di tradizione romana. La spartizione del regno tra i quattro figli di Clodoveo durò poco: tre di essi morirono in breve tempo trasferendo l'intero territorio sotto il controllo di Clotario. Quando quest'ultimo morì il regno venne spartito tra i suoi due figli: Childerico ereditò la Neustria e Sigiberto ereditò l'Austrasia. Tra i due iniziò un periodo di conflittualità interna che terminò con la sconfitta di Brunilde (moglie di Sigiberto al quale era succeduta alla guida del regno dopo la sua morte). Al termine della disputa il regno franco era organizzato nei regni regionali di Austrasia, Neustria e Burgundia ognuno dei quali era capeggiato dalla figura di un maggiordomo. Pipino il Vecchio, maggiordomo di Austrasia della dinastia dei pipinidi, riuscì a rendere ereditaria la sua carica. Ben presto i maggiordomi riuscirono a sottrarre potere al re grazie alla possibilità di disporre del suo patrimonio fondiario del regno e distribuire le terre in cambio di un servizio militare. La dinastia dei pipinidi ottenne sempre più potere anche grazie alla vittoria di Carlo Martello contro gli arabi a Poitiers: il successo militare diede grande prestigio alla famiglia e le fece guadagnare la legittimazione per l'ascesa al trono. Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello, depose l'ultimo re della dinastia dei merovingi. La salita al potere dei pipinidi fu ben accolta da papa Stefano II, che cercava un alleato contro l'espansionismo longobardo in Italia. La sacralità pagana dei merovingi, quindi, fu sostituita dalla sacralità cristiana dei pipinidi. In seguito alla sconfitta dei merovingi i pipinidi avviarono un'operazione denigratoria nei confronti dei vecchi rivali dipingendoli come dei re “fannulloni” e incapaci. Con l'ascesa dei pipinidi (nel 751) riprese l'espansione militare dei franchi. Vennero organizzate due spedizioni che si conclusero con la conquista dei territori dell'Italia centrale per essere restituiti alla Chiesa. Alla morte di Pipino il Breve il regno fu diviso tra i figli Carlo e Carlomanno, ma la morte prematura di quest'ultimo fece sì che il regno si riunificasse sotto il dominio del primo. Le conquiste di Carlo furono dirette a Est nei territori della Germania meridionale dove si erano stabiliti i sassoni, a Ovest nella penisola iberica (è famosa la battaglia di Roncisvalle diventata celebre grazie alla Chanson de Roland) e a Sud nell'Italia longobarda. La definitiva sconfitta dei longobardi nella parte settentrionale della penisola diede maggior legittimità alla dinastia carolingia e la presentava come alleata e difensore della Chiesa. L'atto con cui si formalizzò questo titolo avvenne la notte di Natale dell'800, quando papa Leone III incoronò imperatore Carlo Magno. Egli divenne re di più regni uniti sotto la fede cristiana e da quel momento si dedicò al rafforzamento di quei domini piuttosto che a espanderli. L'incoronazione di un sovrano franco tolse importanza all'impero bizantino. Il regno franco era privo di una vera e propria capitale: i sovrani risiedevano in palazzi di sua proprietà sparsi per le varie città e solo alla fine dell'VIII secolo Carlo Magno scelse Aquisgrana come propria residenza principale. Egli eliminò la figura del maggiordomo e ne istituì altre con il compito di gestire l'amministrazione del regno, controllare le entrare fiscali, organizzare l'esercito e coordinare l'attività degli ecclesiastici di corte a cui era affidato il compito di diffondere la cultura. Nell'814 Carlo Magno morì e l'impero venne smembrato in tre parti che vennero presto riunite sotto l'unico figlio rimasto, Ludovico il Pio. Nell'824 venne redatta la Constitutio romana, un documento che obbligava i papi a giurare fedeltà all'imperatore una volta eletti. Ludovico il Pio diede disposizione che il regno fosse spartito tra i suoi tre figli ma la nascita del quarto lo costrinse a ripensare la spartizione e questo provocò una grande conflittualità. Morti Ludovico e suo figlio Pipino, i tre rimasti si scontrarono con i loro eserciti ma non ci furono vincitori. Si riuscì però a trovare un accordo: secondo il trattato di Verdun Carlo il Calvo avrebbe preso possesso della Francia occidentale, Ludovico il Germanico sarebbe stato re nei territori a Est del Reno e Lotario in Italia settentrionale e la parte che separava la Germania dalla Francia occidentale. I successori di Carlo Magno si dimostrarono assai deboli e non furono all'altezza di conservare l'impero che si era formato. In Italia il dominio franco fu interrotto dall'arrivo dei normanni da Nord e dei saraceni da Sud.
CONTI E VASSALLI, FEUDI E COMITATI Tra il VII e l'VIII secolo nel regno dei franchi di realizzarono delle trasformazioni nell'organizzazione politica e sociale. Questo tipo di organizzazione, tipica del regno carolingio, prende il nome di feudalesimo: le persone erano legate da rapporti di fedeltà in cambio di benefici. La soluzione istituzionale del regno era basata su rapporti vassalatico-beneficiari. L'esercito franco era formato da uomini liberi legati tra loro da rapporti di parentela, di fedeltà o dipendenza personale. L'incontro tra il modello franco, basato sui rapporti personali, e quello romano, basato su rapporti di tipo pubblico, provocò una reciproca acculturazione: i rapporti personali divennero più importanti nella nomina dei ceti dominanti ma si avvertì anche la necessità di rendere più controllabili questi rapporti. Con questo processo si arrivò alla definizione dei rapporti vassallatico-beneficiari. Questo tipo di rapporto consisteva in un accordo stretto tra due persone: il vassallo giurava fedeltà all'altro, che si impegnava a concedergli un beneficio (che poteva essere di diversa natura: dalle terre alle cariche pubbliche e amministrative). Era un tipo di rapporto che caratterizzava la società franca su tutti i livelli: il re si circondava di funzionari a lui fedeli, che a loro volta formavano le proprie reti clientelari allo stesso modo. Condizione necessaria per la fedeltà di altri soggetti era la grande disponibilità patrimoniale; le conseguenze di questo sistema erano la formazione di una ristretta aristocrazia e l'esclusione dalla vita pubblica di coloro che non disponevano di sufficienti risorse. Sul piano economico il sistema franco era basato sulle curtes: i grandi proprietari assorbivano le piccole proprietà e relegavano a ruolo di loro dipendenti i contadini che prima le lavoravano. Nella sua massima espansione l'impero carolingio comprendeva molti territori assoggettati dai franchi. Pur mantenendo un minimo di autonomia regionale, in questi territori venne introdotto un sistema amministrativo che tendeva ad uniformarli sotto la guida dell'impero. All'interno del regno vennero istituite delle circoscrizioni, dette comitati, guidati da un conte che amministrava la giustizia, esigeva le tasse e guidava l'esercito. Nelle zone di confine vennero istituite le marche, territori più ampi coordinati da un marchese. Nei territori da poco assoggettati e non completamente integrati nell'impero vennero istituiti dei ducati. A differenziare questo sistema dalle moderne amministrazioni statali è il fatto che i duchi, i marchesi e i conti erano legati al sovrano da un rapporto vassallatico. Tuttavia il sovrano non sempre poteva scegliere liberamente gli uomini a cui concedere queste cariche: per una serie di motivi (l'ampiezza, la complessità e la varietà del territorio imperiale) era quasi costretto a nominare persone che godevano già di un certo prestigio nel territorio. Più questi individui avevano un proprio patrimonio di grandi dimensioni e meno il sovrano poteva contare su una fedeltà indiscussa. Una forma di controllo sull'attività dei vassalli era costituita dai missi dominici, dei funzionari eletti direttamente dal sovrano che avevano il compito di vigilare sull'operato dei funzionari pubblici locali e diffondere sul territorio le leggi emanate dal sovrano, i cosiddetti capitolari. Tra le schiere dei missi dominici vi erano molti vescovi, eredità della tradizione gallo-romana. Ciò comportava la necessità del sovrano di garantirsi la fedeltà degli uomini ecclesiastici e di poter influire sulla nomina dei vescovi. Un altro strumento di controllo era l'immunità, ovvero la concessione ad alcuni proprietari di alcune prerogative che rendevano le loro proprietà immuni dall'esercizio del potere da parte dei funzionari pubblici locali. La concessione delle immunità limitava i poteri dei conti, marchesi e duchi. Tutti questi centri di potere poterono convivere solo grazie alla guida di un sovrano forte e carismatico. Ma quando i successori di Carlo Magno si dimostrarono molto più deboli questo sistema cominciò a mostrare tutta la sua fragilità: il potere si frammentò presto su scala locale, in mano ai funzionari locali, coloro che godevano delle immunità e i grandi proprietari che esercitavano un'influenza pur non essendo titolari di un potere formale.
ECONOMIA E PAESAGGI Tra il 500 e l'anno 1000 si verificò una grande trasformazione dell'economia europea. Dopo alcuni secoli di crisi la popolazione e la ricchezza europea tornarono a crescere rispetto al passato. A causa della scarsità di fonti i motivi di questo cambiamento sono ancora sconosciuti. La fine dell'economia tardo-antica è stata oggetto di dibattito tra gli storici, alcuni dei quali attribuivano alla fusione con la cultura germanica il merito di queste trasformazioni. Secondo Henri Pirenne il modello economico romano dell'età tardo-antica era rimasto anche dopo le invasioni barbariche e solo la conquista da parte degli arabi di gran parte del Mediterraneo aveva costretto gli europei a basare la propria economia sull'autosufficienza e sullo sfruttamento della terra. Altri storici sostenevano l'ipotesi di un cambiamento graduale e non immediato. In età tardo-antica le proprietà fondiarie dell'impero romano non erano più lavorate solo dagli schiavi. La fine delle conquiste e dell'espansione territoriale portò a una diminuzione dell'afflusso di prigionieri da destinare al lavoro forzato. Si diffuse, allora, la pratica della conduzione indiretta affidando lotti di terra a famiglie di contadini che le lavorassero (con l'obbligo di risiedere nel territorio di cui si occupavano e che dividessero con il proprietario una parte del raccolto). La stessa sorte toccò alle famiglie degli schiavi, costrette a risiedere nel territorio in cui lavoravano. Un grande peso aveva la fiscalità romana, a cui i contadini non potevano più sfuggire a causa dell'obbligo di residenza nelle terre. Nel V secolo la fiscalità andò sempre più scemando, sia a causa della presenza barbara che impediva la riscossione delle tasse in alcune aree dell'impero che per i tentativi di evasione, finché non cessò del tutto. Come conseguenze ci furono la contrazione degli scambi in moneta e un cambiamento nel paesaggio urbano e rurale. Le città si rimpicciolirono e spopolarono e le campagne apparvero sempre meno coltivate. I boschi si ampliarono, fornendo ai contadini nuove risorse che resero meno drammatici gli effetti delle carestie. L'abbandono delle terre coltivate e la crescita dell'incolto fecero da sfondo al calo demografico dei primi secoli dopo la caduta dell'impero romano. Secondo lo storico Marc Bloch la fine dell'impero romano segnò anche la fine della schiavitù: quando per i padroni il mantenimento degli schiavi divenne antieconomico essi decisero di dotarli di una casa e di una terra da lavorare, innalzando il loro status sociale ad un livello intermedio tra la schiavitù e la libertà che prende il nome di servaggio (la condizione degli schiavi si avvicinò a quella dei coloni liberi). Secondo la storiografia più recente, invece, la schiavitù scomparve progressivamente nei secoli successivi. Il sistema produttivo che venne a formarsi durante il periodo carolingio prende il nome di sistema curtense. Le aziende agricole (curtes) venivano divise in una parte sotto la conduzione diretta del proprietario (che si avvaleva degli schiavi che vi risiedevano) e in una a conduzione indiretta, formata dagli appezzamenti di terra che venivano lavorati dai contadini. Questi ultimi erano anche tenuti a fornire una prestazione lavorativa (corvées) nelle terre sotto il diretto controllo del proprietario. Esisteva poi una parte di terreno incolto, composto da boschi, prati e paludi, dove si attingevano le risorse spontanee tramite la raccolta, la caccia e la pesca. Inoltre nelle terre lasciate a riposo (maggese) venivano pascolati gli animali. All'interno delle curtes i proprietari cercavano costantemente di migliorare la produttività con innovazioni tecnologiche e l'avvio di nuove attività produttive. In tal modo si formarono un nuovo artigianato e un nuovo mercato. Il sistema curtense fondò le basi per la ripresa economica e demografica.
LA CITTÀ Le città svolgevano un importante ruolo civile e politico all'interno dell'impero romano. Quando esso venne a mancare si verificarono delle profonde trasformazioni nel tessuto urbano: gli scambi commerciali con le città più lontane cessarono, gli apparati amministrativi entrarono in crisi, la popolazione urbana diminuì drasticamente e la città perse la sua funzione di coordinamento del territorio. Con la sempre crescente ruralizzazione degli abitati cambiarono i rapporti tra città e campagne. A risentire maggiormente della crisi urbana furono soprattutto i centri piccoli e i villaggi: essi scomparvero del tutto a causa della contrazione degli scambi commerciali. Le grandi città resistettero soprattutto grazie alla presenza dei vescovi, su cui si basò il rinnovamento delle strutture e delle funzioni cittadine dopo le invasioni. Fu in questo scenario che sorsero le prime cattedrali e i palazzi vescovili. Secondo lo storico Henri Pirenne le città persero di importanza quando gli arabi posero fine alla possibilità di scambi commerciali sicuri nel Mediterraneo, relegando i centri urbani al ruolo di insediamenti protetti da mura. La mancata possibilità di scambi commerciali ad ampio raggio fece decadere molti centri urbani e la popolazione si spostò sempre di più verso le campagne. Gli studi successivi hanno dimostrato che le città non avevano solo un ruolo commerciale ma anche amministrativo, culturale, politico e religioso e che proprio la ripresa della produzione nelle zone rurali durante l'età carolingia ha rivitalizzato il commercio e, quindi, le città. L'organizzazione romana prevedeva il dominio delle città sulle campagne circostanti. L'arrivo dei longobardi segnò la fine di quest'assetto politico e amministrativo incentrato sui centri urbani. La cultura tribale tipica dei longobardi faceva sì che loro non concepissero un'organizzazione basata sui grandi luoghi di stanziamento. Le circoscrizioni pubbliche, a volte, erano incentrate su piccoli villaggi o monasteri lontani dalle città. Nelle zone sotto il controllo bizantino, invece, si mantenne l'organizzazione romana: le città erano il luogo di residenza dei grandi proprietari fondiari, dei vescovi e delle autorità. Il ruolo della città riacquistò importanza durante la conquista carolingia, con l'istituzione dei comitati. La nuova figura del conte, tuttavia, andava spesso in contrasto con la presenza di quella tradizionale del vescovo. Nonostante l'espansione islamica i rapporti commerciali con l'oriente rimasero in vita, anche se molto ridotti nella quantità e nella qualità: soltanto i beni rari e preziosi venivano scambiati con l'impero carolingio. I vescovi controllavano le principali vie di traffico commerciale, pretendendo il pagamento di tasse e pedaggi che arricchivano le loro città. La realtà sociale delle città era piuttosto articolata e complessa: nei centri urbani vivevano mercanti, artigiani e i proprietari fondiari (che non risiedevano nelle loro curtes in campagna). Tuttavia erano proprio le zone rurali il centro degli interessi economici dei cittadini, che investivano i loro proventi nelle aziende agricole.
ALFABETISMO E CULTURA SCRITTA A partire dal IV secolo la capacità di scrivere si concentrò nelle mani di un numero sempre minore di persone. Questo processo venne accelerato dalla caduta dell'impero romano: venne a mancare il sistema scolastico e il ridimensionamento delle città fece sì che la cultura non si trasmettesse più in strutture stabili. Il libro passò da strumento di lettura e trasmissione del sapere a contenitore di misteri. In questo periodo gli unici che si fecero portatori dell'alfabetizzazione erano gli ecclesiastici. Non tutti sapevano leggere e scrivere e i pochi che ne erano capaci avevano un grado di alfabetizzazione piuttosto sommaria. Anche i laici cominciarono a frequentare le scuole cristiane, vescovili e monastiche. La trasmissione del sapere divenne un processo più privato e informale. Rispetto al diffuso alfabetismo dell'età tardo-antica, la società europea fu una società analfabeta fino al XII secolo. L'alfabetizzazione era una caratteristica rarissima: non tutti gli ecclesiastici erano capaci di scrivere (chi ne era capace lo faceva anche male) e tra i laici la percentuale era bassissima. Le donne erano praticamente tutte analfabete. Vi erano due modi di scrivere: uno veloce e disinvolto, l'altro più stentato e faticoso. Quest'ultimo era particolarmente diffuso tra i pochi alfabetizzati, sintomo di un divario culturale estremamente grande. Scomparvero le officine librarie, i luoghi dove si scriveva e si trasmetteva la lettura, e furono sostituite da piccoli centri di scrittura (situati per lo più nei monasteri) che erano però ristretti alla comunità a cui appartenevano. Cambiò anche il modo di rappresentare i libri nell'arte: se prima i libri erano rappresentati aperti, come un normale oggetto d'uso, nei secoli successivi erano rappresentati come oggetti preziosi, sempre chiusi. La capacità di lettura era ancora più rara della capacità di scrittura: a testimoniarlo è la quasi totale assenza di punteggiatura, che dimostra la mancanza di confidenza con la lettura. Dopo la caduta dell'impero romano la cultura si concentrò nelle scuole cristiane che erano sorte per formare i sacerdoti e in seguito anche i laici. La Chiesa si fece carico di alfabetizzare le popolazioni sia delle città che delle campagne, cogliendo l'occasione di diffondere la religione tra i discenti. Tra il VI e l'VIII secolo i papi affermarono la propria egemonia culturale, oltre che autorità politica, dando vita al monopolio ecclesiastico della scrittura. Accanto alle scuole vescovili si diffusero anche quelle monastiche. Un tentativo di ridare lustro all'alfabetizzazione fu fatto da Carlo Magno: egli tentò di diffondere il più possibile il latino per istruire il popolo nel messaggio cristiano e riaffermò l'importanza della scrittura nell'amministrazione, nel diritto (con i capitolari) e nella diplomazia e cercò di riorganizzare le scuole. Tuttavia né lui né gli altri sovrani carolingi riuscirono a cambiare la situazione di analfabetismo generale. L'insegnamento era basato sui salmi; era, quindi, un'impostazione tipicamente religiosa della formazione. La lingua che veniva insegnata era il latino, che non era più parlato ma rappresentava la lingua religiosa del cristianesimo. L'influenza della cultura islamica portò all'insegnamento di un minimo di scienze matematiche, anche grazie alla riscoperta del classicismo in età carolingia che andava di pari passo con una nuova situazione economica e sociale. In seguito alle prime invasioni barbariche il contesto culturale europeo si distaccò dalla cultura classica e le opere prodotte in questo periodo erano per lo più di stampo cristiano. La riscoperta della classicità avvenne solo durante il regno dei carolingi, nel quale la cultura classica tornò ad avere grande importanza e nello stesso periodo si arrivò anche a produrre nuovi testi e poesie. Questa politica culturale portò all'aumento del numero dei monasteri e delle scuole vescovili. Le seconde invasioni barbariche non arrestarono l'elaborazione culturale, se non provvisoriamente, e la riorganizzazione complessiva che seguì a quelle distruzioni portò a intensificare gli scambi culturali tra i vari centri urbani, i monasteri e le corti. La cultura classica tornò a rappresentare un importante riferimento per l'Europa.
LE SECONDE INVASIONI E LA RISTRUTTURAZIONE DEL TERRITORIO EUROPEO Tra il IX e l'XI secolo l'Europa dovette subire una nuova ondata di migrazioni che in alcune regioni modificò gli assetti sociali, politici e territoriali. Fu un fenomeno meno omogeneo delle prime invasioni barbariche. Le popolazioni protagoniste di queste migrazioni e incursioni che diedero vita a nuovi stanziamenti furono i saraceni, i normanni, gli ungari e gli slavi. Data la contemporaneità delle loro incursioni gli storici tendono a considerarle come un fenomeno unitario ma le storie di queste popolazioni furono diverse. Gli slavi erano un popolo che avevano occupato i territori che vanno dagli Urali all'Europa centrale, spinti nei secoli precedenti dall'avanzata degli unni verso occidente. Essi erano per lo più una moltitudine di tribù sedentarie che vivevano di allevamento e agricoltura. Non erano posti sotto la guida di un regno o di un condottiero, il che favorì la loro libera espansione sia verso Est che verso Ovest. In seguito a questi movimenti si delinearono tre gruppi di slavi: gli slavi orientali (russi e ucraini), gli slavi occidentali (polacchi, cechi e slovacchi) e gli slavi meridionali (sloveni, croati e serbi) che si stanziarono nei territori balcanici grazie alla debolezza dell'impero bizantino e si mescolarono alle popolazioni già presenti, quali gli avari e i bulgari (che rappresentavano un costante pericolo per l'impero bizantino). Dato che i loro territori sono rimasti a lungo estranei dalle vicende storiche e politiche europee, negli ultimi secoli i nazionalismi hanno dato vita al mito dell'”alterità slava” secondo cui i popoli slavi non appartenevano alla realtà europea ed erano degli ospiti non graditi ai quali dovevano essere tolti i loro territori in favore della razza tedesca. Gli slavi si stanziarono proprio in mezzo all'impero franco e a quello bizantino. Questi ultimi, sentendosi entrambi minacciati dalla loro presenza e per evitare una loro ulteriore espansione, cercarono di ricondurre questi popoli all'interno delle loro alleanze avviando un programma di evangelizzazione. A tale scopo inviarono dei missionari cristiani per favorire la diffusione del cristianesimo. I missionari franchi entrarono in contatto con gli slavi occidentali, mentre i missionari bizantini (tra cui Cirillo e Metodio, famosi per aver tradotto la Bibbia nell'alfabeto cirillico con il quale era possibile riprodurre i fonemi della lingua slava) evangelizzarono gli slavi meridionali e orientali. Questa distinzione divenne importante quando la Chiesa di Costantinopoli si staccò da quella di Roma dopo lo scisma del 1054. Fu proprio in questo periodo che gli slavi si organizzarono in regni indipendenti. Gli ungari fecero la loro apparizione in occidente nella seconda metà del IX secolo e si resero artefici di veloci e devastanti incursioni che misero in seria difficoltà l'Europa, in cui si erano inoltre accesi gli scontri legati all'affermazione dei poteri locali. Dopo una serie di spostamenti dagli Urali settentrionali gli ungari si stanziarono in Pannonia (la regione a Nord della Dalmazia). Qui ebbero i primi scontri con gli eserciti occidentali: il loro stile di combattimento si caratterizzava per l'utilizzo della cavalleria leggera e per le imboscate, che permettevano loro di mettere a segno velocissime ed efficacissime incursioni. Le scorrerie degli ungari, unite all'affermazione dei poteri locali, favorirono l'incastellamento, ovvero il proliferarsi di castelli e borghi fortificati in Europa che avevano anche una funzione di difesa dalle incursioni. Quando anche in occidente si diffuse la cavalleria leggera le scorrerie ungare cominciarono a perdere efficacia. La sconfitta contro Ottone I nel 955 segnò la fine della loro aggressività e l'inizio del loro stile di vita sedentario. Gli ungari furono poi inseriti nell'orbita di influenza della Chiesa di Roma e dei sovrani tedeschi. I saraceni (termine con il quale si indicavano in maniera dispregiativa le popolazioni nordafricane islamizzate) furono artefici di incursioni nel Mediterraneo. Non si trattava di una vera e propria espansione ma di semplici attacchi atti a creare degli insediamenti in territorio nemico e da lì perpetrare le loro razzie. Essi riuscirono a conquistare la Sicilia e alcuni avamposti dell'Italia bizantina come Taranto e Bari. Le incursioni saracene terminarono con la graduale affermazione dei poteri locali che garantiva una miglior difesa lungo le coste. Anche i normanni (“uomini del nord”; in Scandinavia presero il nome di vichinghi, mentre in Europa orientale erano chiamati variaghi) contribuirono all'indebolimento dei saraceni. Inizialmente furono protagonisti di semplici incursioni costiere e successivamente iniziarono a occupare territori. Grazie all'utilizzo di particolari imbarcazioni i normanni riuscivano a risalire i fiumi e ad assalire località apparentemente sicure. La loro espansione si propagò lungo diverse direttrici e da diverse regioni di partenza. Non erano più delle incursioni volte a conseguire un bottino ma a esercitare un controllo duraturo sui territori conquistati. Nella Gallia settentrionale il loro stanziamento diede vita al ducato di Normandia, da cui partirono le spedizioni con cui il duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, conquistò l'Inghilterra ai danni degli anglo-sassoni nella battaglia di Hastings del 1066 e Roberto il Guiscardo (della famiglia degli Altavilla) nello stesso periodo conquistò la Sicilia e l'Italia meridionale, ponendo fine al controllo dei saraceni e dei longobardi, questi ultimi ancora in lotta contro i bizantini per il controllo del Sud della penisola.
IL TRIONFO DEI POTERI LOCALI NELLE CAMPAGNE NELLE CITTA' Il sistema politico, sociale ed economico del X e l'XI secolo in Europa viene chiamato sistema feudale. Il feudo consisteva in un beneficio (che non era soltanto una terra su cui il vassallo poteva esercitare poteri di natura pubblica) che un potente concedeva ad un vassallo in cambio della sua fedeltà nello svolgere determinati servizi. Già durante il periodo carolingio si diffusero i rapporti vassallatico-beneficiari, un sistema che prevedeva la presenza di rapporti clientelari nella politica dell'impero. Tali rapporti però erano ancora estranei alla delega del potere regio a esercitare funzioni pubbliche in un determinato territorio. Dopo la dissoluzione dell'impero carolingio venne a mancare il coordinamento regio e i vassalli si impadronirono del potere facendo proprie le cariche che erano loro state concesse dall'imperatore nei vari territori. I conti, i duchi e i marchesi divennero sovrani nei territori di loro giurisdizione e continuarono a gestirli secondo i propri rapporti vassallatico-beneficiari. Successivamente il potere pubblico si frammentò sempre di più su scala locale in territori in mano ai proprietari terrieri che andavano via via formandosi attorno ai castelli. Soltanto a partire dal XII secolo tutti questi frammenti di territorio vennero coordinati all'interno di regni di nuova formazione attraverso il diritto feudale, che regolamentò i rapporti clientelari e li organizzò in una struttura gerarchica. Alcune teorie hanno tentato di spiegare i motivi dello sviluppo di questo sistema: alcuni storici danno la colpa alla debolezza di alcuni imperatori, rei di aver ceduto parte del loro potere pubblico ai vari signori; altri ritengono che si sia trattato di un processo spontaneo di sviluppo del potere dei grandi proprietari terrieri, che è diventato indipendente una volta venuta a mancare l'autorità pubblica. Una volta morto un vassallo i benefici che gli erano stati concessi tornavano in mano al sovrano, che poteva disporne liberamente (anche se era prassi consolidata che il beneficio venisse riconfermato agli eredi del defunto). Nell'877 l'imperatore Carlo il Calvo emanò il capitolare di Quierzy, con il quale si disponeva che i benefici fossero concessi agli eredi dei grandi vassalli in caso di morte di questi ultimi. Pur trattandosi di una disposizione provvisoria, l'aristocrazia trovò nel capitolare un pretesto per legittimare il diritto all'ereditarietà dei benefici. Con la caduta dell'impero carolingio questo privilegio fu ulteriormente consolidato dall'assenza di un'autorità superiore. Da quel momento in poi la legittimità del potere pubblico locale dei conti e marchesi si basò sulla disponibilità materiale: in quel sistema il potere era legittimato dalla proprietà di un grande patrimonio terriero e dalla possibilità di schierare un piccolo esercito (formato da uomini fedeli al signore ricompensati a loro volta con dei benefici). In questo scenario anche le singole proprietà terriere diventarono delle giurisdizioni autonome svincolate dal potere dei comitati, anche grazie alla concessione delle immunità che i sovrani carolingi concedevano alle famiglie dei proprietari. Con la Constitutio de feudis emanata dall'imperatore Corrado II nel 1037 vennero resi ereditari anche i benefici dei vassalli minori, privando ancor di più il potere centrale della capacità di incidere sui territori. La crescente insicurezza causata dalle incursioni relative alle seconde invasioni barbariche, complice l'incapacità dei sovrani carolingi di garantire la sicurezza, causò il fenomeno dell'incastellamento: i grandi proprietari realizzarono delle fortificazioni attorno alle loro residenze nella curtes per difendersi dalle scorrerie. Anche i liberi contadini dei territori limitrofi si trasferirono all'interno delle aree fortificate mescolandosi ai servi dipendenti del padrone, attenuando le loro differenze sociali e conferendo maggior potere al proprietario. Non fu, quindi, un fenomeno esclusivamente difensivo: sia i proprietari che gli eredi dei vassalli dell'impero carolingio sfruttarono l'insicurezza diffusa per aumentare la loro influenza sul territorio grazie ai castelli. Con l'incastellamento i grandi proprietari diventarono dei signori territoriali. Da una signoria fondiaria (in cui il proprietario esercitava un potere sui suoi servi e sui coloni liberi che lavoravano le sue terre ed erano obbligati al versamento di quote in denaro o in natura e a svolgere le corvées) si passò a una signoria territoriale (detta anche “signoria di banno” perché il signore aveva il potere di bandire) in cui tutti i precedenti poteri potevano essere esercitati a tutti gli abitanti di un certo insediamento. All'interno del castello il signore poteva richiedere prestazioni di lavoro, esercitare la giustizia e imporre delle tasse. Nelle città un ruolo importante era svolto dai vescovi, che avevano un primato spirituale ma anche civile. Durante il regno dei carolingi i vescovi erano utilizzati anche come controllori dell'operato di conti e marchesi e spesso i loro patrimoni godevano dell'immunità. Dopo la caduta dell'impero essi rinsaldarono il loro primato cittadino grazie all'assenza di altre autorità politiche. Nel X secolo molti sovrani riconobbero il ruolo politico e civile dei vescovi nelle città di loro giurisdizione. Impero e regni nell'età post-carolingia In seguito alla deposizione di Carlo il Grosso nell'887 i territori dell'impero carolingio conobbero sviluppi politici e istituzionali diversi che si accompagnarono all'affermazione dei poteri locali, sulla cui base si riorganizzò il potere in mano agli imperatori della dinastia sassone. In Francia dopo la crisi dinastica e la deposizione di Carlo il Grosso si aprì una lotta per la successione al trono che durò molti decenni e vide protagonisti gli ultimi eredi dei carolingi e i conti di Parigi. I sovrani che si succedettero in questo periodo non godettero mai di un potere stabile. Il titolo di re di Francia, la cui influenza si era ridotta all'area di Parigi, nel 987 passò stabilmente in mano a Ugo Capeto (da cui prese il nome la dinastia dei capetingi). Il regno di Francia era molto frammentato dal punto di vista territoriale e politico-amministrativo: il re governava solo sui territori che riusciva a controllare direttamente e quelli che facevano parte del suo patrimonio personale. Tuttavia il re godeva di un'autorità di ordine morale e religiosa che i conti, duchi e marchesi non potevano vantare. Essi si rivolgevano al re come garante dei loro poteri (che nella pratica erano autonomi) ma era visto come un'autorità lontana. Gli stessi duchi e conti, alcuni dei quali erano a capo di ampi domini regionali, avevano un potere assai ridimensionato a causa della presenza delle signorie di banno rappresentate dai castelli. In Italia la fine dell'impero carolingio non portò sostanziali cambiamenti nell'estensione del territorio. Il regno che era dei longobardi prima e dei carolingi poi, si estendeva dalla parte settentrionale fino ai confini con lo Stato della Chiesa, mentre nella parte meridionale vi erano domini longobardi in Campania, saraceni in Sicilia e bizantini nelle zone rimanenti. I poteri locali dei signori di banno e degli enti religiosi che godevano dell'immunità acquistarono sempre più potere ai danni del regno. Si trattava di un equilibrio sempre più precario, dato dalla decadenza dell'ordine che era stato costituito dai carolingi e dall'affievolirsi della legittimità del potere centrale. In assenza di eredi carolingi e di una legislazione che regolasse la successione al trono, la guida del regno d'Italia fu contesa dalle principali famiglie dell'aristocrazia (quattro famiglie in lotta: duchi e marchesi di Spoleto, Toscana, Ivrea e Friuli). Durante questo periodo di conflittualità i contendenti chiesero più volte aiuto ai sovrani di regni limitrofi: il titolo di re d'Italia fu ricoperto da Rodolfo re di Borgogna, poi da Ugo re di Provenza e in seguito da suo figlio Lotario II (morto dopo pochi anni), poi da Berengario II marchese di Ivrea. Con l'intervento di Ottone I re di Germania (che per legittimare il suo potere in Italia sposò Adelaide, vedova di Lotario II) nacque il Sacro Romano Impero. La conquista dell'Italia da parte del re di Germania ricollegò le vicende italiane a quelle tedesche. In Germania il regno teutonico (formatosi con il trattato di Verdun che divise l'impero carolingio in tre parti) era formato da ampi ducati regionali (Baviera, Svevia, Sassonia, Lotaringia e Franconia) che con la caduta dell'impero carolingio avevano assunto maggiore autonomia. Il re di Germania, che rappresentava un ruolo strettamente simbolico di giudice e guida militare, veniva eletto proprio dai principi di questi regni ed era sempre un appartenente alle stirpi ducali. Con l'elezione di Enrico I di Sassonia nel regno teutonico salì al potere la dinastia dei sassoni. Nel 936 venne eletto re suo figlio, Ottone I (che si fece incoronare ad Aquisgrana per simboleggiare la continuità con l'impero di Carlo Magno). Il suo progetto fu quello di rafforzare l'autorità regia e ridare prestigio al titolo di imperatore. Egli portò a termine i suoi obiettivi stabilendo dei legami d'alleanza con i grandi signori del regno, che non erano più semplici conti o duchi ma esercitavano una propria sovranità sul territorio. Sfruttando il ruolo sacrale della figura del re, ripreso e rilanciato da Ottone I rifacendosi alla tradizione romana, bizantina e carolingia, riuscì ad ottenere la fedeltà dei signori locali e degli ecclesiastici restituendo autorità alla carica regia. Inoltre concesse i benefici feudali solo agli ecclesiastici, che non potevano avvalersi dell'ereditarietà per mancanza di eredi. Con questa politica riuscì a inserirsi nella lotta per la corona d'Italia conquistando il titolo di imperatore. Allo stesso tempo riuscì a porre un freno alle incursioni degli ungari grazie ad una vittoria militare che rafforzò ulteriormente il suo prestigio. Il richiamo agli imperi del passato riguardava soprattutto alcuni elementi simbolici del potere come l'abito, lo scettro, la corona e i cerimoniali. L'imperatore si fece difensore della cristianità e della Chiesa di Roma ma allo stesso tempo cercò di sottomettere quest'ultima: emanò il Privilegium othonis con il quale ribadiva il principio secondo cui un papa, una volta eletto, dovesse giurare fedeltà all'imperatore e cercò di fare sua la prerogativa di poter eleggere i vescovi (a cui era legato il suo potere). Queste furono le basi per una conflittualità tra impero e Chiesa che si sarebbe manifestata in seguito (in età ottoniana si manifestò la debolezza papale causata dalla crisi politica post-carolingia: gli esponenti dell'aristocrazia romana si contesero la carica papale, affidata spesso a personaggi deboli che si attennero alla volontà imperiale). Ottone I cercò rafforzare la sua posizione in Italia conducendo delle spedizioni militari contro i domini bizantini a Sud, che però fallirono. Decise allora di tentare l'azione diplomatica per far riconoscere la sua autorità da parte degli imperatori bizantini: tuttavia neanche il matrimonio tra la nipote dell'imperatore bizantino e Ottone II, figlio di Ottone, sortì gli effetti desiderati (solo le figlie potevano ereditare i territori). Ottone II ereditò la carica di imperatore e condusse una spedizione militare contro i saraceni che terminò con un fallimento. La sua morte prematura fece passare il titolo imperiale a suo figlio Ottone III (dopo un periodo di reggenza della madre e della nonna a causa della minore età dell'erede al trono). Cresciuto con il mito dell'impero romano, Ottone III elaborò il suo progetto di renovatio imperii (ovvero di ripristino dell'impero romano). Egli non curò i rapporti con i detentori dei poteri locali e trovò l'opposizione dell'aristocrazia romana, che lo cacciò da Roma in seguito a numerose sollevazioni. Morì nel 1001, giovanissimo e senza eredi. Dopo Ottone III venne eletto imperatore Enrico II che si concentrò sul rafforzamento dell'autorità imperiale sui poteri locali. Gli succedette Corrado II e iniziò il regno della dinastia salica.
L'ANNO MILLE: CONTINUITA' E TRASFORMAZIONI Molti storici utilizzano l'anno 1000 come momento di cesura tra due epoche. Si tratta soltanto di una convenzione ma è fondata su buone ragioni. Il confronto tra la società carolingia e la società di metà XI secolo rivela una serie di cambiamenti politici, economici e sociali. Tuttavia non si può dare un valore troppo rigido a questa cesura: se alcuni sostengono che questa mutazione sia stata quasi immediata, altri sostengono che si sia trattato di un processo più lento e graduale. L'idea che l'anno 1000 sia stato un anno vissuto nel terrore di una possibile fine del mondo è un mito da sfatare. Nessuno in realtà si accorse del passaggio di questa data a causa della diversità dei vari sistemi di datazione (alcuni secondo il metodo cristiano, altri invece si basavano sugli anni di regno di sovrani e papi). Inoltre questo mito è stato elaborato soltanto durante il rinascimento per indicare in maniera dispregiativa i secoli “rozzi e oscuri” del passato. L'XI secolo si inserisce nel processo di crescita demografica iniziata tra i secoli VIII e XIV, favorita dalla ripresa dei commerci, dalle innovazioni tecnologiche e dal miglioramento dell'alimentazione che portarono ad una lenta e graduale ripresa economica. In questo periodo si verificò una rivoluzione tecnologica che permise la diffusione di nuovi strumenti e tecniche di produzione e di sfruttamento dell'energia come l'aratro pesante e il mulino ad acqua. Inoltre nelle zone dell'Europa centro-settentrionale si diffuse la rotazione triennale, ovvero la pratica di dividere il terreno in tre parti uguali in cui si alternavano ogni anno la coltura di grano e di legumi e il terreno a riposo dove venivano fatti pascolare gli animali. Ad aumentare la produzione, tuttavia, fu soprattutto l'ampliamento degli spazi coltivati. Dopo la riduzione degli spazi coltivati, sostituiti da aree boschive, nell'VIII secolo si verificò un'inversione di tendenza: l'aumento della popolazione si accompagnò alla necessità di aumentare la produzione agricola. L'agricoltura di questo periodo non era di tipo intensivo, ovvero basata sull'aumento della produttività della terra, ma di tipo estensivo, cioè basato sull'aumento delle terre destinate alla coltura. La ricerca di nuove terre portò anche alla nascita di nuovi insediamenti. Questo processo di estensione delle terre coltivate portò, nel XII secolo, alla saturazione del terreno e la bonifica delle paludi divenne inevitabile per la disponibilità di nuove terre (nelle Fiandre si crearono i polders). Attorno all'anno 1000 nacquero le signorie di banno, una forma di controllo politico del territorio esercitata dai grandi proprietari sulle loro proprietà protette dalle mura dei castelli. A causa di questa trasformazione degli ordinamenti politici è stato dato all'anno 1000 il valore di una cesura approssimativa, nonostante tra gli storici ci sia chi sostiene l'ipotesi della continuità con i secoli precedenti e successivi. Secondo alcuni storici la società precedente all'VIII secolo era povera perché i contadini non erano stimolati dai prelievi perciò la loro produzione si manteneva sulla soglia della loro autosufficienza e gli aristocratici godevano di una bassa rendita fondiaria che non permetteva loro di incentivare l'artigianato e il commercio. Dopo la trasformazione del sistema economico e sociale in alcune zone d'Europa l'aristocrazia cominciò ad intervenire direttamente nella conduzione delle terre: la rendita fondiaria aumentò e con essa il resto della produzione, l'artigianato e il commercio. In altre zone, dove i conti avevano tenuto lontane dal potere le aristocrazie locali, accadde il contrario: fu la crescita economica a influenzare l'evoluzione politica.
IL NUOVO MONACHESIMO E LA RIFORMA DELLA CHIESA Durante il X secolo, mentre si affermavano i poteri locali, si diffusero nuove forme di integrazione di vescovi ed ecclesiastici nella gestione del potere. Mentre si andavano formando le signorie di banno gli ecclesiastici cercarono di mettere in atto i privilegi di immunità, creando delle aree simili a quelle di dominio signorile. Il rafforzamento del ruolo ecclesiastico a livello locale coincise con l'indebolimento del papato, sempre più in balìa delle famiglie aristocratiche romane (che per lungo tempo imposero i loro esponenti alla guida della Chiesa, nonostante si trattasse di personalità non adeguate al ruolo). Anche il controllo dell'impero ottoniano sull'episcopato rese evidente la crisi della Chiesa di Roma. Per questo si sentì il bisogno di riorganizzarla e di ripristinare l'autorità morale e politica del papa. Il comportamento dei vescovi, che agivano più come esponenti di aristocrazie che come guide spirituali, favorì la nascita di movimenti pauperistici che rifiutavano la Chiesa come istituzione proponendo un ritorno agli ideali del cristianesimo evangelico. L'XI secolo fu decisivo per l'affermarsi di un'organizzazione centralizzata della Chiesa. Questa riforma fu il frutto di una serie di vicende improvvise e inaspettate e non di un progetto ben definito. Un importante contributo a questo rinnovamento venne dal mondo monastico: all'interno di alcuni monasteri si sentì il bisogno di ritrovare credibilità morale per ridare prestigio alla Chiesa e permetterle di continuare ad essere la guida della cristianità. Non si trattava di una contestazione alle ricchezze e i beni ecclesiastici, che anzi erano bene accetti per rappresentare il fulgore della Chiesa, ma si propose di estendere a tutta la Chiesa il modello monastico basato sulla preghiera e sulla purezza del corpo. I principali portavoce di questa posizione furono i monaci di Cluny, la cui abbazia fu fondato da Guglielmo duca d'Aquitania. Essa raggiunse grande notorietà anche per il suo modello di vita monastica basato sulla liturgia e sulla verginità (considerato un requisito fondamentale per fare da mediatore tra mondo terreno e mondo celeste) che permetteva ai monaci cluniacensi di presentarsi come uomini angelici che stabilivano rapporti privilegiati con l'aldilà. L'abbazia di Cluny, che si sottopose direttamente al papa riconoscendone il primato, divenne una delle più importanti di tutta l'Europa e ottenne il privilegio dell'immunità. Un'altra forma di monachesimo che nacque nello stesso periodo era quello di ispirazione eremitica, sull'esempio dei primi monaci orientali: in Italia furono fondati gli eremi (monasteri con ampi spazi di isolamento) e in Francia nacque l'ordine dei certosini. Altri movimenti riformatori monastici condannavano usanze largamente diffuse come la simonia (la compravendita di cariche ecclesiastiche) e il nicolaismo (il concubinato e il matrimonio degli uomini di chiesa). Oltre ai movimenti riformatori si diffusero anche i primi movimenti religiosi pauperistici: essi sostenevano una riforma radicale della Chiesa, che avrebbe dovuto abbandonare totalmente le questioni temporali. Questi movimenti contestavano soprattutto l'alto clero locale e trovarono un alleato nei papi che in quel periodo cercarono di rafforzare il loro controllo sulle chiese locali. Il rinnovamento della Chiesa fu accelerato dal controllo imperiale dell'elezione papale. Dopo che per diversi anni la scelta del papa era stata controllata dalle famiglie dell'aristocrazia romana (che portò alla nomina di tre papi diversi contemporaneamente che si scontrarono tra loro) l'imperatore Enrico III intervenne convocando un concilio a Sutri e fece deporre i tre papi per eleggere un vescovo tedesco, Clemente II. L'intervento dell'imperatore nella scelta del pontefice non portò all'indebolimento della Chiesa: dato che il potere imperiale dipendeva dall'affidabilità dei vescovi, la nomina era basata su un processo di attenta selezione che riportò alla guida della Chiesa di Roma persone di una certa autorità morale. Tra i papi scelti da Enrico III ci fu anche Leone IX, che si scontrò con il patriarca di Costantinopoli per il controllo delle chiese locali in Italia meridionale. Questa disputa si concluse nel 1054 con lo scisma tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli, una frattura che non è mai stata ricomposta. Alla morte di Enrico III suo figlio Enrico IV era ancora minorenne e non poté governare da subito. Nel frattempo, in questo vuoto di potere, la famiglia dei Canossa-Lorena riuscì a far eleggere papa Niccolò II: egli ruppe la tradizione del controllo imperiale sull'elezione papale e promulgò il Decretum in electione papae con il quale stabiliva che il diritto di scegliere il papa spettava solo ai cardinali (ovvero i vescovi, preti e diaconi titolari delle chiese cardine di Roma). Ovviamente questo provvedimento non fu accettato dalla corte imperiale. Alla morte di Niccolò II i cardinali elessero Alessandro II, a cui venne contrapposto Onorio II che venne invece scelto dalla corte imperiale. Tuttavia, a causa della ritrovata autorità e moralità del papa, l'imperatore cominciò a perdere il carattere di sacralità che lo aveva contraddistinto sin dai tempi di Ottone I e l'idea che il suo intervento nella nomina dei papi e dei vescovi cominciò a venir meno. La lotta per le investiture, ovvero i contrasti per la nomina dei vescovi, era solo uno dei motivi di scontro tra Chiesa e impero. Agli inizi del regno di Enrico IV fu nominato papa Gregorio VII, uno dei grandi fautori del movimento riformatore. La sua elezione fu stabilita dopo un'acclamazione da parte del popolo e non secondo quanto stabilito da Niccolò II. Gregorio VII promosse un modello organizzativo della Chiesa di stampo monarchico e un'opera di desacralizzazione della carica imperiale escludendola dalle ingerenze nella vita religiosa. Sotto il dominio di Enrico IV gli scontri con il papa furono più duri: i vescovi tedeschi si schierarono a favore dell'imperatore, Gregorio VII dichiarò illegittime le investiture dei vescovi decide dall'imperatore e ratificò la nuova struttura verticistica della Chiesa con il Dictatus papae, l'imperatore convocò un concilio di vescovi tedeschi che dichiararono deposto il papa e infine quest'ultimo scomunicò Enrico IV, liberando i suoi sudditi dall'obbligo di obbedienza. L'imperatore fu costretto a recarsi presso il castello di Matilde di Canossa dove era ospitato il papa e chiedere il suo perdono. Ottenuta la revoca della scomunica, Enrico IV riprese la sua politica con più vigore: occupò militarmente Roma e insediò Clemente III al soglio pontificio. Nonostante la nomina di un papa da parte dell'imperatore, però, la nuova ideologia papale fatta di desacralizzazione della carica imperiale e dell'affermazione del proprio ruolo di unica guida della cristianità non cessò. Nel 1122 la lotta per le investiture si risolse nel concordato di Worms sottoscritto dall'imperatore Enrico V e il papa Callisto II: il concordato stabiliva che l'elezione dei vescovi doveva essere fatta rispettando la volontà del clero e del popolo delle città ma in Germania l'imperatore poteva investire i vescovi di funzioni e beni temporali. La questione delle investiture fu definitivamente chiusa e mai più ripresa. Il modello di organizzazione monarchica che scaturì da questi scontri caratterizza ancora oggi l'istituzione ecclesiastica. Da questi scontri l'ideologia imperiale ne uscì fortemente indebolita, tanto che i successivi imperatori tedeschi videro sempre più messa in discussione la loro autorità.
LA COSTRUZIONE DELLE MONARCHIE FEUDALI Tra l'XI e il XII secolo in molte parti d'Europa cambiò il panorama politico. La grande pluralità di signorie territoriali lasciò il posto a monarchie capaci di esercitare il dominio su parti crescenti di territorio. Questo processo di ricomposizione politica e territoriale, nonostante la comune importanza dei rapporti vassallatico-beneficiari, ebbe sviluppi diversi in Francia, in Inghilterra, nella penisola iberica e in Italia meridionale. L'emergere di casate desiderose di presentarsi come superiori rispetto al pullulare di poteri locali diede vita a una ristrutturazione dei rapporti feudali che portò alla formazione di una struttura politica di tipo gerarchico, con la supremazia del sovrano sui nobili locali. Per tradizione le popolazioni germaniche attribuivano al re la funzione di mantenere la pace e muovere guerra. Rispetto ai regni romano-barbarici, però, nel X secolo si era consolidato l'aspetto territoriale dei poteri politici. Il potere era quindi fondato sul possesso di un grande patrimonio fondiario e sulla capacità di controllarlo. Le grandi monarchie europee tentarono di distinguersi dai signori locali rivendicando titoli, carismi e funzioni superiori e instaurando relazioni vassallatico-beneficiarie in cui apparisse la loro posizione di preminenza. Per riaffermare la loro superiorità i re cominciarono ad attribuire caratteristiche sacrali al proprio ruolo: vennero allestiti nuovi cerimoniali e simboli che si rifacevano alle tradizioni dei grandi regni passati e in Francia e Inghilterra si diffuse il mito dei re taumaturghi, ovvero la credenza che i re potessero guarire alcune malattie (come la scrofola) con il loro semplice tocco. Quando le monarchie cominciarono ad affermarsi, la gestione del potere era nel suo momento di massima frammentazione. Dalla fine del XI secolo alcuni grandi principi territoriali cominciarono a restaurare la propria autorità sui loro vassalli mettendo per iscritto i diritti e i doveri dei vassalli. Nel 1066 Guglielmo duca di Normandia vinse la battaglia di Hastings e conquistò l'Inghilterra scacciando gli anglo-sassoni (viene ricordato come “Guglielmo il conquistatore”). I normanni smantellarono l'ordine politico e sociale anglo-sassone e impiantarono una fitta rete di castelli creando un sistema feudale. Per impedire la formazione di signorie di banno che mettessero in discussione il potere del re le proprietà fondiarie vennero posizionate a grande distanza l'una dall'altra. Inoltre, per impedire le appropriazioni indebite, venne redatto un registro, il Domesday book, dove vennero registrate tutte le proprietà terriere del regno e i vassalli che le detenevano. Enrico II (della famiglia dei Plantageneto) si occupò di ridurre il potere acquisito dalla grande nobiltà migliorando l'amministrazione del regno. Enrico II cercò anche di revocare i privilegi di immunità concesso al clero sottomettendo gli ecclesiastici alla giustizia regia. Nonostante l'opposizione del suo cancelliere Thomas Becket, che venne condannato a morte, e di alcune concessioni alla Chiesa, il potere del re ne uscì rafforzato e nacque il sistema giudiziario della common law, in cui alcune cause di natura locale o particolare potevano essere trasferite alla corte del re. In questa Inghilterra il re era al vertice di una doppia gerarchia, quella feudale e quella politico-amministrativa. Questo sistema entrò in crisi alla morte del re Riccardo “cuor di leone”, quando venne incoronato Giovanni “senza terra” (così chiamato perché perse quasi tutti i possedimenti inglesi in Francia). Il clero, i nobili locali e la crescente potenza delle città mercantili tornarono a minacciare il potere centrale. L'unione di queste forze, nel 1215, portò alla scrittura della Magna Charta Libertatum, un documento che limitava l'autorità del re e tornava a riconoscere le prerogative di città, chiese e nobili all'interno del sistema dominato dal re. In Francia i primi sovrani capetingi esercitavano il loro potere solo su una zona ristretta del loro territorio (Parigi e territori limitrofi). Agli inizi del XII secolo il re Luigi VI tentò di reprimere l'indipendenza dei signori di banno, che ormai si erano impadroniti di prerogative pubbliche e imponevano le tasse. Riuscì nell'intento grazie all'azione militare. La stessa cosa fecero gli altri principati che formavano il regno di Francia. Nonostante fossero legati da un rapporto feudale, i duchi di questi regni trattavano il re di Francia come un proprio pari. Quando Eleonora, moglie di Luigi VII (che era succeduto al padre), divorziò dal re di Francia per sposare Enrico Plantageneto (che poco dopo divenne Enrico II d'Inghilterra) portandogli in dote l'Aquitania, i Plantageneti si ritrovarono ad essere più potenti di Luigi VII pur essendo una famiglia di vassalli. Per ristabilire la propria egemonia, il re di Francia mosse guerra ai Plantageneti ma in seguito alla pace dovette riconoscere la proprietà dei territori occidentali. Quando salì al trono Filippo Augusto l'autorità regia crebbe grazie a un processo di centralizzazione politica e amministrativa. Inoltre il nuovo re riuscì ad espandere i territori francesi grazie alla politica matrimoniale e ad alcune vittorie militari ai danni dei Plantageneti. Dopo la morte di Enrico II riuscì a strappare quasi tutti territori inglesi in Francia a Giovanni Senza Terra. La vittoria conseguita a Bouvines nel 1214 legò quei ducati e contee alla corona di Francia. Nei nuovi territori acquisiti si incrementò il controllo sulla trasmissione ereditaria dei benefici e si cercò di rendere più gerarchico il sistema feudale. In Italia meridionale, all'inizio dell'XI secolo, giunsero i normanni. Essi si inserirono nella guerra tra longobardi e bizantini come soldati mercenari, ricevendo la ricompensa della contea di Aversa e del ducato di Melfi che favorirono il loro radicamento come signori territoriali. Dopo un'iniziale conflittualità, i normanni e il papato giunsero a un accordo: i normanni avrebbero ricevuto i territori dell'Italia meridionale (e la Sicilia, una volta scacciati i musulmani) in cambio della sottomissione feudale al papa. Quando Ruggero II, re di Sicilia e figlio di Ruggero d'Altavilla (fratello di Roberto il Guiscardo), unificò i territori normanni dell'Italia meridionale l'antipapa (ovvero un papa nominato dall'imperatore) Anacleto II conferì dignità di re a lui e ai suoi eredi, affermando la superiorità regia rispetto a tutti gli altri poteri del regno normanno. In questo gesto Ruggero trovò l'elemento di legittimazione del proprio potere. Nei confronti dei poteri locali Ruggero cercò di allestire una rete di controllo sull'esempio di quanto accadde in Inghilterra. Alla sua morte si succedettero il figlio Guglielmo I e il nipote Guglielmo II, che morì senza eredi. La corona passò a Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II e moglie dell'imperatore Enrico VI: il regno passò dai normanni alla casa di Svevia. Le monarchie iberiche si formarono in seguito alla cosiddetta reconquista, l'operazione con cui alcuni piccoli regni cristiani conquistarono i territori musulmani nella penisola, ribaltandone l'equilibrio etnico e religioso. Il risveglio del sentimento religioso nella parte settentrionale della penisola che aveva resistito all'avanzata islamica, favorito dalla riforma cluniacense (visibile nell'organizzazione del pellegrinaggio a Santiago de Compostela), diede impulso all'operazione. Dal regno di Navarra si separò la Castiglia (da cui poi si separò il Portogallo), che formò un regno indipendente ed estese la propria egemonia su Navarra, Asturie e Leòn. Con l'unione di alcuni principati franchi nel Nord della penisola iberica nacque l'Aragona. Anche il califfato iberico era diviso in tante signorie territoriali. Grazie ad importanti vittorie militari, il re Alfonso VI di Castiglia si proclamò imperatore di tutta la Spagna, ottenendo anche il riconoscimento del re d'Aragona che gli conferiva un potere sacralizzato. Il suo successore Alfonso VII provvide a organizzare il sistema feudale secondo una rete gerarchica con al vertice il sovrano. Alla fine del XII secolo i nobili e gli ecclesiastici trovarono spazio nei parlamenti, le assemblee rappresentative dove potevano esercitare la loro influenza.
SOCIETA' CITTADINA E ORIGINE DEGLI ORDINAMENTI COMUNALI Tra l'XI e il XII secolo all'interno delle città dell'Italia settentrionale si svilupparono degli ordinamenti e magistrature indipendenti che miravano all'autogoverno delle comunità. Dopo la caduta dell'impero carolingio il territorio e il potere politico si frammentarono in una molteplicità di signorie locali. In Italia le funzioni pubbliche all'interno delle città furono totalmente assorbite dai vescovi, che contribuirono a frammentare il potere ma allo stesso tempo tennero in piedi la società favorendo la partecipazione attiva dei cittadini nella gestione degli affari comuni. Il potere non veniva tramandato per via dinastica ma era la società urbana che provvedeva ad eleggere il proprio vescovo. Ad avere un peso su queste elezioni erano i proprietari terrieri, i mercanti, gli artigiani, gli ecclesiastici e i magistrati. La società cittadina era divisa in due classi sociali: l'aristocrazia e il popolo (che comprendeva tutti coloro che non erano soggetti a legami vassallatico-beneficiari). Tuttavia si trattava di una società dove non c'era una distinzione di ceto molto rigida e tutti i cittadini cooperavano per mantenere l'indipendenza delle città. L'azione degli imperatori della dinastia salica e la riforma della Chiesa determinarono una crisi nell'equilibrio interno delle città. Sia l'impero che il papato cercarono di sottoporre al proprio controllo la nomina dei vescovi e, quindi, esercitare il proprio potere sulle città. Sia gli imperatori che i papi imposero alle città dei vescovi, estranei alla tradizione sociale e politica dei comuni, che tentarono di avviare delle riforme nelle alte sfere del clero cittadino. All'interno delle città si formarono due schieramenti: coloro che si opponevano a queste riforme per conservare le autonomie locali e coloro che invece le appoggiavano. Questi ultimi erano gli esclusi dal regime precedente ed erano a loro volta divisi tra coloro che erano schierati dalla parte dell'imperatore e coloro che erano schierati dalla parte del papa. Queste divisioni diedero vita a violente lotte interne date dalla compresenza di due vescovi, uno legato all'imperatore e l'altro al papa. Da questa situazione di conflitto emerse la volontà di pacificazione sociale da cui scaturì l'ordinamento comunale. I cittadini si distaccarono dalla figura del vescovo e si affidarono a due o più consoli eletti da assemblee chiamate “arenghi”. I consoli rappresentavano una guida politica, militare e giudiziaria per le città. Si fa risalire la nascita dei comuni al momento in cui compare questa nuova figura istituzionale. La volontà di conservare le autonomie cittadine portò i cittadini a conservare delle documentazioni scritte circa i loro diritti patrimoniali e giurisdizionali. Da questo momento la scrittura dei documenti cessò di essere una prerogativa esclusivamente ecclesiastica e andò a caratterizzare la nuova realtà istituzionale. Il ricorso alle forme contrattuali e l'esigenza di fissare in forma scritta i tempi e i modi delle conquiste dei comuni si accompagnarono alla riscoperta del diritto romano come strumento per la convivenza civile. I numerosi richiami al periodo repubblicano dell'antica Roma erano frutto della volontà di contrapporre la nuova società cittadina ai regimi di stampo signorile diffusi nel territorio. A caratterizzare i comuni, oltre alla loro indipendenza politica, c'era anche la capacità di espandere i propri confini conquistando i territori circostanti. Con un rapido processo di espansione le città riuscirono ad assoggettare i loro contadi (ovvero i territori che passarono sotto il governo diretto dei comuni) scontrandosi spesso con i signori locali, che dovettero sottomettersi alle città. La rapidità di queste conquiste rese inevitabile la nascita di forti conflittualità fra le città vicine. Il controllo del contado aveva un'importanza soprattutto economica: il sostentamento dei cittadini dipendeva dagli approvvigionamenti provenienti dalle campagne e dal mercato. Per questo motivo le comunità del contado furono assoggettate politicamente e fiscalmente; inoltre, vennero presi dei provvedimenti a tutela della proprietà da parte dei cittadini ai danni dei signori locali. Il passaggio della proprietà terriera in mano ai cittadini comportò un cambiamento nell'organizzazione del lavoro nei campi. I possessori urbani non vedevano la proprietà fondiaria come un territorio su cui esercitare un potere di tipo signorile ma la consideravano una risorsa economica su cui investire. Per questo venne abolito il servaggio (sia per sottrarre manodopera all'aristocrazia che per aumentare le entrate fiscali, dato che essendo liberi i lavoratori erano tenuti a pagare le tasse) e i rapporti di lavoro divennero più brevi e a retribuzione fissa indipendente dagli andamenti produttivi. Questi provvedimenti vennero sanciti anche dalla legislazione urbana. La libertà personale dei coloni fu maggiormente garantita ma la loro dipendenza dai proprietari si trasformò da dipendenza sociale a dipendenza economica. Nonostante lo sviluppo economico, commerciale e demografico all'inizio del IX secolo sia stato comune a tutta l'Europa, solo in Italia settentrionale nacquero le istituzioni comunali. Nelle altre zone europee le città erano socialmente organizzate in maniera più omogenea, abitate per lo più da mercanti e artigiani. In Francia poche città ottennero il riconoscimento all'autogoverno, mentre altre (le cosiddette città di franchigia) godettero di ampie autonomie pur essendo sottoposte al controllo regio. In Germania le città rimasero soggette al potere vescovile e signorile. In Italia meridionale il controllo dei normanni fu saldo.
LA NASCITA DELLA CAVALLERIA E L'INVENZIONE DELLE CROCIATE Nelle fonti del X secolo compare molto spesso il termine miles, che indicava con diverse accezioni i guerrieri (a piedi o a cavallo) ma anche i vassalli del sovrano che si occupavano delle questioni militari. Secondo lo storico Marc Bloch l'affermazione del feudalesimo portò a un mutamento dell'organizzazione sociale con la conseguenza che il mestiere delle armi fu affidato ad una ristretta aristocrazia formata da alcuni signori territoriali in grado di schierare un esercito. Successivamente a questi signori venne attribuito il valore della nobiltà cavalleresca. Secondo Jean Flori, invece, fu l'aristocrazia che si appropriò del mestiere di guerriero a cavallo, legato ad una carica onorifica di grande prestigio. Lo sviluppo delle signorie di banno rese necessario un numero crescente di guerrieri per la difesa del signore e dei suoi possedimenti. In questo contesto nacquero i cavalieri, ovvero dei guerrieri a cavallo che inizialmente avevano umili origini. Con il tempo il mestiere del cavaliere andò sempre più specializzandosi per un utilizzo in assedi e brevi assalti. Si svilupparono nuove tecniche di combattimento basate sullo scontro individuale e sull'utilizzo di lunghe e pesanti lance con le quali era possibile disarcionare l'avversario. Le nuove tecniche di combattimento portarono anche allo sviluppo di nuove armature. Se da una parte gli elevati costi per il mantenimento delle attrezzature restrinsero la cerchia dei cavalieri ad un'élite, dall'altra i successi personali dei cavalieri aumentarono il prestigio legato a questa figura e sempre più aristocratici furono attirati da questa carriera. Il loro prestigio era dato anche dalla loro partecipazione ai tornei, in cui le loro abilità facevano spettacolo. L'aumento del numero dei cavalieri era legato anche al mutamento delle strutture familiari: con l'affermarsi delle signorie di banno le famiglie dei proprietari si radicarono nel territorio in cui era situato il proprio castello e, per non dividere i patrimoni (spesso di dimensioni ridotte), si cominciò a scegliere il primogenito come erede. La discriminazione dei figli non primogeniti costrinse questi ultimi a cercare fortuna nell'esercizio delle armi. I cavalieri non ancora affermati erravano di corte in corte con la speranza di essere reclutati e costruirsi una posizione. Spesso si davano alle rapine e ai saccheggi, motivo per cui gli ecclesiastici cercarono di dare alle loro azioni un'etica più socialmente vantaggiosa. Con la riforma della Chiesa la pratica del pellegrinaggio vide crescere di importanza. Oltre alle classiche mete di Roma e Gerusalemme, durante la reconquista si diffuse il culto di S. Giacomo e Santiago de Compostela divenne un'altra meta di pellegrinaggio. Quando il papa Alessandro II diede il suo appoggio alla reconquista, offrendo la remissione dei peccati a chi avesse partecipato alla guerra contro i mori (termine con cui venivano chiamati i musulmani) per riconquistare i territori cristiani, molti cavalieri francesi partirono per la Spagna. Papa Urbano II, durante un concilio a Clermont, invitò i nobili e i cavalieri cristiani a un pellegrinaggio armato verso Gerusalemme (occupata dai turchi, una nuova popolazione eurasiatica convertitasi all'islam) come mezzo di espiazione per i loro peccati di lotte fratricide. Questo appello non era un bando per l'inizio delle crociate: questo concetto venne elaborato nel XIII secolo; si trattava piuttosto di un'iniziativa militare che, almeno nelle intenzioni, sarebbe dovuta essere isolata. Partita nel 1096, la prima crociata (a cui parteciparono cavalieri che non trovarono fortuna in Europa, senza una precisa organizzazione) si concluse nel 1099 con la difficoltosa e sanguinosa conquista di Gerusalemme. Nei territori conquistati furono fondati diversi regni, dominati da nobili e cavalieri che avevano partecipato alla spedizione e organizzati su stampo feudale. In questi regni assunsero grande importanza gli ordini religiosi posti a difesa dei luoghi sacri in Terrasanta e in Europa, come i cavalieri templari (posti a difesa del tempio di Salomone), i cavalieri ospitalieri e l'Ordine teutonico, tutti ordini monastici caratterizzati dalla presenza di monaci-guerrieri votati all'esercizio delle armi. La Terrasanta era importante anche per le rotte commerciali con l'occidente: in particolare ne approfittarono Venezia, Genova, Pisa e Amalfi, che fecero le proprie fortune grazie al commercio. La conflittualità interna agli stati crociati rese facile la riconquista da parte dei musulmani. Nel 1147 Luigi VII re di Francia, nel tentativo di riprendere il controllo delle rotte commerciali, promosse la seconda crociata a cui partecipò anche l'imperatore Corrado II, ma i contrasti tra i due sovrani fecero fallire la spedizione. Per tutta risposta i musulmani, guidati da Saladino, conquistarono gli stati crociati riportando Gerusalemme e la Terrasanta in mani musulmane, suscitando forte impressione in occidente. Nel 1189 anche la terza crociata, a cui parteciparono l'imperatore Federico Barbarossa, Filippo Augusto re di Francia e Riccardo “cuor di leone” re d'Inghilterra, ebbe esito negativo per mancanza di coordinamento. Nel XIII secolo, durante il pontificato di Innocenzo III, venne a delinearsi l'idea di crociata come tentativo di ricondurre alla cristianità occidentale i territori che le erano appartenuti (la Terrasanta ma anche l'impero bizantino). Nella quarta crociata i cristiani volsero i loro attacchi alla conquista di Costantinopoli, sottraendola ai bizantini e creando l'impero latino d'oriente (che durò circa sessant'anni). La crociata divenne anche mezzo di lotta contro i nemici della cristianità all'interno della cristianità stessa, ovvero gli eretici: Innocenzo III indisse una crociata contro i catari (detti anche albigesi, data la loro diffusione nella città di Albi) in Francia meridionale. Essi trovarono l'appoggio del conte di Tolosa che fece leva sulla diversità religiosa per mantenere l'autonomia dal re di Francia, il quale sfruttò la crociata per riportare il controllo sul territorio del regno. Altre crociate furono indette per conquistare i territori dei confini nord-orientali della Germania, di cui si occuparono i cavalieri teutonici. Innocenzo III promosse anche la quinta crociata, che fallì. La sesta crociata fu portata avanti dall'imperatore Federico II, che riuscì a riottenere Gerusalemme ma solo per pochi anni (poi ricadde in mani musulmane). Dopo i fallimenti della settima e dell'ottava crociata, di cui si incaricò Luigi IX re di Francia, il progetto di riconquistare Gerusalemme fu definitivamente abbandonato.
L'IMPERO BIZANTINO E L'EST EUROPEO Gli storici hanno a lungo discusso su quale data segni il momento in cui non si può più parlare di impero romano d'oriente ma di un impero bizantino con caratteristiche diverse da quelle dell'età antica. Questa trasformazione coincise con la ridefinizione territoriale conseguente alle conquiste di arabi, slavi e bulgari. Successivamente l'impero vide una fase di riassestamento politico-amministrativo e di nuova espansione per poi ridimensionarsi con le conquiste occidentali della quarta crociata. Infine, nel 1453, i turchi guidati da Othman (per questo detti “ottomani”) conquistarono interamente l'impero. Nel VII secolo iniziò l'espansione islamica, che coinvolse le zone costiere del Medio Oriente, l'Africa settentrionale e, nell'VIII secolo, la penisola iberica. A causa degli arabi l'impero bizantino perse molti territori e rischiò di perdere anche Costantinopoli, difesa egregiamente anche grazie all'utilizzo del “fuoco greco” (una miscela che si incendiava a contatto con l'acqua; veniva utilizzata soprattutto nelle battaglie navali lanciandola sulle navi nemiche) di invenzione bizantina. Contemporaneamente all'espansione islamica, nella penisola balcanica premevano gli slavi e i bulgari: questi ultimi si stanziarono entro i confini dell'impero e formarono un regno indipendente sottraendo altri territori ai bizantini. Il ridimensionamento territoriale rese necessario un riassetto amministrativo. L'impero venne diviso in circoscrizioni chiamate théma affidate a uno stratego, figura che ricopriva ruoli militari e civili (venne meno la rigida separazione tra funzioni politico-amministrative e militari che aveva caratterizzato il mondo romano). Ai soldati, reclutati su base regionale, vennero concesse delle proprietà fondiarie trasmissibili per via ereditaria e uno stipendio per le prestazioni militari. La base delle strutture amministrative e dell'esazione fiscale divennero le comunità rurali, a scapito delle città. Scomparvero le istituzioni romane e vennero creati dei ministeri per la gestione dell'esercito, delle comunicazioni, del prelievo fiscale e degli affari imperiali. Il diritto giustinianeo venne progressivamente abbandonato per far posto a una serie di consuetudini orientali; venne abbandonato anche il latino e la lingua ufficiale dell'impero divenne il greco. La carica imperiale non era ereditaria (come invece accadeva nei regni occidentali dello stesso periodo storico): l'imperatore veniva eletto dai ceti dominanti, scegliendo una persona di prestigio che si era distinta nella carriera militare. Nel X secolo prevalse il concetto dinastico e di successione ereditaria e si affermò una nuova aristocrazia che aveva le basi sia nell'esercizio delle armi che nella proprietà fondiaria. All'inizio dell'VIII secolo l'impero bizantino si era sganciato dai confini, dalla cultura, dall'economia e dagli organi amministrativi del periodo romano. Soltanto la religione cristiana tenne in piedi un'identità collettiva che venne quasi stravolta: data la sua importanza, le questioni religiose ebbero ripercussioni anche su quelle politiche. Un importante controversia si sviluppò attorno alla questione della rappresentazione di Cristo attraverso le immagini: gli iconoclasti (distruttori di immagini), influenzati dagli altri monoteismi (islam e ebraismo), negavano che il divino fosse rappresentabile; gli iconoduli (adoratori di immagini) sostenevano che la natura umana di Cristo legittimasse la sua rappresentazione pittorica. Per sottrarre potere agli ordini monastici (che avevano influenza sul popolo grazie al culto delle immagini) e per creare un fronte compatto contro l'espansione islamica, il culto delle immagini fu abolito e successivamente riabilitato. In seguito alla riorganizzazione dell'impero, esso vide una ripresa economica e culturale che determinò una ripresa dell'espansione territoriale. Vennero riconquistati alcuni territori persi contro gli arabi (tra cui la Calabria e la Puglia, ma anche in Mesopotamia) e venne annientato il Regno di Bulgaria. La riconquista di alcune isole dell'Egeo, inoltre, segnò la ripresa delle relazioni commerciali con l'occidente. Dalla seconda metà del X secolo si sostituì l'esercito a reclutamento regionale con dei professionisti stipendiati, concentrando le alte cariche militari in pochi uomini fedeli all'imperatore. Nonostante la ripresa economica i mercanti bizantini rimasero assoggettati ai vincoli imposti dall'impero, che regolava i prezzi e le modalità di produzione e vendita, indebolendo l'economia bizantina nei confronti di quelle occidentali. La rinascita culturale si estese al di là dei confini dell'impero, dando luogo a una sorta di bizantinizzazione delle popolazioni confinanti con l'impero, anche grazie ad azioni missionarie (come quella di Cirillo e Metodio) volte a diffondere la fede cristiana tra le tribù seminomadi. Il definitivo distacco dell'impero bizantino dall'occidente si ebbe con lo scisma tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli. I motivi dei contrasti erano diversi: la questione dell'iconoclastia, i conflitti per il controllo delle chiese bulgare e il diverso orientamento che stavano prendendo le due istituzioni (la Chiesa di Roma stava affermando il suo potere temporale e il suo primato con la creazione di una struttura gerarchica, mentre la Chiesa di Costantinopoli, che prese anche il nome di “Chiesa ortodossa”, si basava sulle assemblee dei vescovi). Nell'XI secolo l'economia europea entrò in una fase di espansione e il commercio si diresse verso oriente. Amalfi e Venezia erano un tramite commerciale molto importante fra i porti iberici, africani e bizantini. La conquista normanna dell'Italia meridionale fece decadere l'economia di Amalfi a causa della politica centralistica. Nel frattempo si stavano affermando i centri costieri del Mediterraneo occidentale, soprattutto Genova e Pisa, che condussero una politica aggressiva nei confronti dei musulmani. L'impero bizantino dovette affrontare la minaccia dei turchi provenienti da oriente; di questa situazione approfittò Venezia, che fornì la propria flotta in aiuto ricevendo in cambio il diritto di attraccare in tutti i porti bizantini senza il pagamento dei dazi. Questa situazione di estremo favore fu pienamente sfruttata dai mercanti veneziani, che ottennero il monopolio degli scambi con l'oriente. L'economia bizantina entrò di nuovo in crisi e nel XIII secolo la quarta crociata portò al saccheggio e alla conquista di Costantinopoli. Il territorio, diviso nei principati feudali dell'impero latino d'oriente, venne ripreso nel 1261. Assai indebolito in economia da genovesi e veneziani, l'impero bizantino guidato dalla dinastia dei Paleologo, cadde nel 1453.
IL RINNOVAMENTO CULTURALE A partire dal XII secolo i testi scritti aumentarono notevolmente di numero. Questa esplosione dell'arte della scrittura segna la ripresa di una tradizione culturale laica e la fine del monopolio ecclesiastico della produzione e conservazione di scritture. La causa principale di questo fenomeno è l'aumento del numero di persone alfabetizzate all'infuori della cerchia ecclesiastica grazie alla nascita delle università e alla riscoperta del diritto romano e della cultura classica. La crescita economica che iniziò durante il periodo dei sovrani carolingi mutò la società e ampliò gli scambi, scatenando la necessità di fissare per iscritto diritti, transazioni e soluzioni alle controversie. Tuttavia si trattò di un allargamento molto limitato e la scrittura rimase un'arte per pochi. La svolta si ebbe nei secoli successivi, quando la ricomposizione politica e territoriale dei vari organismi (monarchie, comuni, papato e impero) portò ad un largo uso della scrittura per scopi burocratici da parte dei funzionari. La presenza di questi ultimi favorì la creazione di nuove sedi di trasmissione del sapere. La svolta del XII secolo non fu solo quantitativa, ma anche qualitativa: si andarono a correggere tutte le imperfezioni legate all'alfabetismo dei secoli precedenti. Il libro diventò uno strumento fatto per essere utilizzato e non più solo ammirato. Il rinnovamento riguardò anche la disposizione materiale del testo nelle pagine, simbolo di un modo completamente nuovo di scrivere e di leggere. Tra l'XI e il XII secolo nacquero le università, delle comunità organizzate e dotate di un proprio statuto giuridico dove veniva trasmesso il sapere. Il sorgere delle università fu un processo spontaneo di difesa esterna e organizzazione interna, in alcuni casi partito dalla volontà degli studenti di acculturarsi e in altri casi dai professori che colsero la necessità di trasmettere il loro sapere. Una volta acquisita una notevole importanza per la formazione intellettuale, le università dovettero subire i tentativi di controllo da parte dei poteri locali e di quelli più lontani come re, imperatori e papi. A prescindere dalle discipline insegnate, i metodi di insegnamento prevedevano la lettura di un testo classico e autorevole: il professore leggeva e commentava i singoli passi. Dato che i libri venivano copiati a mano (non era ancora stata inventata la stampa), si percepì la necessità di poter contare su copie affidabili dei testi. La forte domanda di libri, conseguente al crescente numero degli studenti, fece nascere delle botteghe interne alle università dove venivano copiati e venduti i libri. Le opere degli autori dell'antica Grecia erano la base del sistema scolastico tardo-antico. Quest'ultimo venne a mancare dopo la caduta dell'impero romano, e con esso la conoscenza del greco. Nell'impero d'oriente, invece, il greco era ancora parlato e le opere vennero anche tradotte in altre lingue orientali (l'arabo soprattutto). La riscoperta dei classici in occidente avvenne in due modi: il primo fu la traduzione dei testi classici direttamente dal greco, mentre il secondo fu la traduzione dall'arabo. Quest'ultimo metodo, però, si rivelò poco efficace a causa dei troppi passaggi di lingua che ne avevano alterato i significati. Tuttavia gli arabi avevano notevolmente arricchito la conoscenza scientifica classica, contribuendo fortemente allo sviluppo della conoscenza e dell'osservazione della natura nella cultura occidentale. Nel XII secolo la contrapposizione tra gli alfabetizzati e gli analfabeti cambiò significato. Nei secoli precedenti gli alfabetizzati erano un'élite formata da ecclesiastici in grado di leggere e scrivere in latino. Dato che il latino era riservato alla sfera religiosa e alle pratiche solenni e auliche, l'alfabetismo non era visto come una superiorità intellettuale ma come semplice diversità di funzioni. Dal XII secolo in poi il saper leggere e scrivere in latino fu simbolo di una superiorità culturale che non era più ristretta solo a un'élite. Quando quest'ultima smise di detenere il monopolio della scrittura, anche le lingue volgari trovarono spazio sulla pagina scritta (in paesi come Germania e Inghilterra, dove la lingua usata dagli ecclesiastici era diversa da quella comunemente usata dagli abitanti, le lingue volgari si svilupparono con largo anticipo nella cultura letteraria). L'alfabetizzazione fu anche l'origine dell'innalzamento sociale di alcune categorie professionali come i magistrati e i notai.
L'IMPERO E LA DINASTIA SVEVA Quando Federico I (detto Barbarossa) della dinastia degli svevi venne eletto imperatore, l'autorità imperiale tornò ad essere protagonista delle vicende europee. Nell'arco di sole tre generazioni, tuttavia, l'impero passò da una rinnovata affermazione del suo ruolo a una fine del concetto di potere universale a cui aspirava. Gli imperatori svevi (Federico Barbarossa e Federico II) tentarono di definire gli ambiti legittimi del potere imperiale attraverso il recupero del diritto romano e la formalizzazione del diritto feudale. Tale progetto fallì a causa dell'opposizione dei territori dell'impero. Tra il XII e il XIII secolo, mentre Francia, Inghilterra e Italia meridionale cercavano di riunire il territorio dopo la frammentazione locale dei poteri, la Germania e l'Italia settentrionale seguirono processi diversi. Nel regno germanico non si era affermato il principio dell'ereditarietà e della trasmissione dinastica della carica regia. Anche se di fatto accadeva spesso che il titolo passasse di padre in figlio, ogni nomina doveva essere approvata da un'assemblea di principi tedeschi. Al regno germanico era legata anche la carica imperiale, che conferiva al sovrano un potere sacrale. Alla morte di Enrico V, ultimo imperatore della dinastia salica, il trono fu conteso tra la casata di Svevia e quella di Baviera. Nel 1152 venne eletto imperatore Federico Barbarossa duca di Svevia: la sua personalità e le capacità politiche e militari permisero agli svevi di essere eletti imperatori per tre generazioni, pur con grande incertezza. La prima discesa in Italia di Federico Barbarossa si ebbe quando il papa e le città lombarde chiesero aiuto all'imperatore per contrastare l'espansione dei comuni più potenti, in particolare Milano. Questa prima spedizione in Italia diede l'occasione all'imperatore di comprendere la situazione politica e sociale dell'Italia settentrionale. Successivamente l'imperatore convocò una dieta, un'assemblea pubblica nel corso della quale definì le prerogative dell'autorità regia, chiamate regalie: il controllo delle vie di comunicazione, l'esercizio della giustizia, il prelievo fiscale, l'autorità di battere moneta e il diritto di muovere guerra. Sulla base della tradizione del diritto romano cercò di ridefinire gli ambiti di pertinenza del potere centrale che si erano dispersi nell'intreccio dei poteri signorili. Contemporaneamente emanò la Constitutio pacis con la quale proibiva le guerre private tra i comuni, rendendo il diritto di pace e di guerra un'esclusiva dell'imperatore. Federico Barbarossa volle anche riordinare il fitto intreccio di poteri signorili che le dinastie aristocratiche esercitavano sul territorio: per questo egli garantì la continuità del potere ai signori locali e alle città che già lo detenevano ma impose loro il riconoscimento della sua autorità superiore con la formale sottoscrizione di un rapporto feudale. Milano non accettò di sottomettersi all'impero e venne attaccata dall'esercito imperiale (al quale si unirono gli eserciti dei comuni circostanti, preoccupati dal crescente potere di Milano). Una volta stabilita la presenza dell'impero, Federico Barbarossa sottopose le città ad una forte pressione fiscale che spinse i comuni lombardi ad unirsi in un'alleanza, la lega lombarda, sostenuta anche dal papa Alessandro III (preoccupato da una forte presenza dell'impero in Italia). Dopo una serie di battaglie l'esercito imperiale fu sconfitto a Legnano nel 1176 e Federico Barbarossa fu costretto a firmare la pace di Venezia con il papa e la pace di Costanza con i comuni della lega lombarda: in cambio del riconoscimento formale dell'autorità imperiale, Federico Barbarossa concesse ai comuni l'esercizio delle regalie, rispettando il loro desiderio di autonomia. Nel 1190, durante la terza crociata, morì annegato in un fiume. Il figlio di Federico Barbarossa, Enrico VI, sposò Costanza d'Altavilla, figlia del re normanno Ruggero II. In tal modo Enrico VI si inserì nella lotta per la successione al Regno di Sicilia. Nel 1194 venne incoronato re ma morì dopo pochi anni, così come Costanza. L'unico erede era il figlio Federico II, che aveva soli quattro anni ed era stato affidato alla tutela del papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano vassalli. Quando Federico II raggiunse i quattordici anni venne incoronato re di Sicilia. Nel frattempo Innocenzo III intervenne nella contesa per la successione imperiale. I due pretendenti erano Ottone di Brunswick e Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI: il papa appoggiò Ottone di Brunswick e riuscì a farlo eleggere, ma questi cercò subito di rendersi indipendente dalla protezione papale e rivendicò all'impero la sovranità dei territori su cui il papa stava consolidando il potere temporale della Chiesa. Innocenzo III reagì scomunicandolo e proponendo Federico II, che venne incoronato re di Germania, come nuovo imperatore dopo che questi si era impegnato davanti al papa a non unificare mai i regni di Germania e Sicilia e a non designare un unico successore per entrambi i regni. La ragione di questa richiesta da parte di Innocenzo III stava nel timore che i domini territoriali della Chiesa potessero essere schiacciati da un unico regno nei territori della penisola italiana. La battaglia di Bouvines nel 1214, tra Ottone di Brunswick (alleato di Giovanni Senza Terra re d'Inghilterra) e Federico II (alleato di Filippo Augusto re di Francia), segnò la sconfitta del primo e l'incoronazione del secondo a imperatore. La politica di Federico II fu molto diversa nei suoi vari regni. In Germania il potere dei principi tedeschi era particolarmente affermato e il sovrano aveva poche possibilità di ostacolarne il potere. Per questo motivo garantì loro un ampio margine di autonomia in cambio della loro fedeltà all'imperatore. In Sicilia, invece, la sua azione politica fu diretta a togliere il potere ai signori locali (che dopo la morte di Enrico VI avevano approfittato dell'assenza del re per imporre il proprio dominio sul territorio) rivendicando a sé tutti i diritti regi usurpati. Sull'esempio di quanto avevano fatto i normanni prima di suo padre, perseguì una politica di soggezione delle comunità urbane al governo centrale. Federico II promosse un commercio di stato che portò molti fondi nelle casse dello stato e indebolì il ceto mercantile, la costituzione di un efficiente apparato amministrativo e la fondazione dell'università di Napoli. Nella sua corte siciliana si circondò di poeti, giuristi, filosofi e scienziati di varia estrazione culturale e favorì lo sviluppo delle scienze e delle arti (nacque la scuola siciliana, una delle più importanti correnti letterarie della storia della letteratura italiana). Nell'ultima fase della sua vita l'imperatore mosse guerra ai comuni dell'Italia centro-settentrionale, riprendendo il progetto di Federico Barbarossa di affermare l'autorità imperiale sulle città della lega lombarda, che si era ricostituita sotto la guida di Milano. Nonostante la vittoria militare di Federico II egli non seppe imporre la propria autorità sui comuni settentrionali, alleati del papa Gregorio IX. Nel 1250 Federico II morì, e con esso anche la concezione di un potere imperiale capace di dominare tutta l'Europa centrale. Nonostante non venne più eletto alcun imperatore per più di vent'anni, i comuni italiani continuarono ad essere divisi tra sostenitori dell'impero e suoi oppositori. Alla sua morte Federico II non rispettò il patto secondo cui non avrebbe dovuto riunire i due regni: egli nominò suo figlio Corrado come unico erede. Tuttavia, un altro figlio di Federico II, Manfredi, si impadronì del Regno di Sicilia sfruttando la morte prematura di Corrado e la minore età di suo figlio Corradino. In qualità di signore feudale del Regno di Sicilia, il papa decise di affidare il regno a Carlo d'Angiò (fratello di Luigi IX re di Francia), un uomo a lui fedele che avrebbe dovuto coordinare le città guelfe (cioè sostenitrici del papa) dell'Italia settentrionale. Nel 1266 Carlo d'Angiò sconfisse Manfredi a Benevento. Anche Corradino, sostenuto dalle città ghibelline (ovvero fedeli all'imperatore) venne sconfitto a Tagliacozzo nel 1268.
I COMUNI ITALIANI Dal XII al XIV secolo nei comuni dell'Italia centro-settentrionale la conformazione del ceto dominante cittadino e il sistema di governo cambiarono profondamente. Con la pace di Costanza nel 1183 l'impero riconobbe l'autonomia dei comuni, aprendo la strada a uno sviluppo sociale e istituzionale che modificò il panorama politico della penisola. All'impero e alle signorie locali si aggiunsero dei regimi cittadini disposti secondo reti di alleanza che divennero vaste coordinazioni politiche. Nei secoli successivi dai comuni si svilupparono degli ampi stati territoriali che avevano più influenza dell'impero stesso. Il processo di crescita economica che favorì la nascita delle monarchie europee coinvolse anche le città dell'Italia settentrionale. Data la diversa struttura politica, nei comuni fu una parte più estesa della società a beneficiare dello sviluppo generale. Le nuove opportunità che esso offriva favorirono lo spostamento di gran parte della popolazione dalle zone rurali a quelle urbane, contribuendo alla crescita del numero di cittadini e delle dimensioni delle città. La società urbana divenne più ricca e complessa ma anche più instabile e difficile da governare. Il sistema basato sui consoli entrò in crisi: si trattava di un accordo tra le famiglie più ricche e potenti, che trasformavano la loro egemonia informale in un potere legittimo attraverso la scelta dei consoli, ma l'arrivo di nuove famiglie dalla campagna rese più difficile trovare accordi nei processi decisionali e i ceti dominanti cominciarono dividersi in diverse fazioni in lotta. I conflitti spinsero i cittadini a sperimentare altre soluzioni: si arrivò a definire un sistema in cui la gestione del comune veniva affidata a un magistrato, chiamato podestà, che stipulava un vero e proprio contratto con il comune e si circondava di funzionari che svolgevano diverse funzioni all'interno di un consiglio comunale. Il podestà era un professionista esperto della politica, esterno alla cittadinanza del comune. Col tempo, man mano che si cristallizzavano gli schieramenti (guelfi e ghibellini), i comuni iniziarono a scegliere dei podestà che avessero il loro stesso indirizzo politico. Questo sistema garantì un minimo di ordine interno. La crescita della popolazione non accese solo gli scontri all'interno dell'aristocrazia cittadina, ma anche tra questa e i ceti popolari, che crebbero in ricchezza e prestigio ma rimasero fuori dalla politica. Uno di questi scontri ruotò attorno ai cavalieri: essi godevano di alcuni privilegi che pesavano sulle casse del comune e i ceti popolari protestarono contro di essi e chiesero anche una ripartizione delle imposte più equa e la possibilità di accedere alle cariche pubbliche. Oltre ad entrare nei consigli, i ceti popolari formarono la “società del popolo”, un organismo generale formatosi con l'unione delle corporazioni (le associazioni che riunivano quanti svolgevano lo stesso mestiere) e le associazioni territoriali. Questi organismi si dotarono presto di una struttura simile a quella capeggiata dal podestà. L'aristocrazia urbana si organizzò nelle “parti”, delle associazioni che aveva l'obiettivo di condurre la propria città all'interno della fazione dei guelfi o in quella dei ghibellini. Queste associazioni arrivarono ad avere un altissimo grado di influenza sulla politica cittadina, tanto che quando una parte trionfava, gli esponenti della parte avversa venivano esiliati ed espropriati dei beni e privati del diritto di cittadinanza. La caratteristica più visibile dei comuni fu la spontaneità: mentre nel resto d'Europa le monarchie tennero a bada le spinte provenienti dal corpo sociale, nei comuni nacquero dei movimenti sociali (come la società del popolo o le parti) che giunsero a costituire delle istituzioni parallele capaci addirittura di prendere il sopravvento sul comune stesso. Nel corso del XIII secolo si diffuse la pratica di concedere, in via straordinaria, alcune funzioni politiche a membri dell'aristocrazia cittadina, estendendo i poteri dei podestà oppure conferendo il titolo di signore della città ad un personaggio di spicco per un tempo limitato. I signori cercarono di conservare la propria posizione cercando l'appoggio dell'imperatore, che poteva affidare loro il titolo di vicario, e trasmettendo questo titolo per via dinastica. Poteva accadere anche che i signori venissero cacciati in seguito a congiure di palazzo o colpi di stato. Nel XIV secolo si provvide a riscrivere l'assetto istituzionale delle città: le varie istituzioni sorte in maniera spontanea furono disposte in un nuovo sistema più ordinato e stabile. Il movimento sociale si esaurì e non fu più in grado di dare vita a nuove istituzioni spontanee. Il crescere della distanza tra i vertici dell'aristocrazia cittadina e il resto della società favorirono la stabilizzazione dell'assetto politico. Nonostante la chiusura della fase di mobilità sociale e politica, le nuove forme di governo ereditarono dai vecchi governi comunali alcune caratteristiche, come la grande produzione e conservazione di scritture documentarie che favorirono la nascita di un grande apparato burocratico-amministrativo e la soggezione dei contadi al governo cittadino. Il comune rimase per molto tempo un modello insuperato di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
IL CONSOLIDAMENTO DEI REGNI EUROPEI Nel XIII secolo si assiste al rafforzamento del potere monarchico degli stati europei che erano riusciti a ricostruire una base del loro potere attraverso l'uso dei rapporti feudali (Francia, Inghilterra e Spagna). Il processo di rafforzamento delle monarchie seguì percorsi diversi nei vari regni ma si caratterizzò per alcuni elementi comuni. Uno di questi è l'espansione territoriale: i re cercarono di riportare sotto il loro diretto controllo dei territori che facevano parte del regno solo formalmente ed erano controllati da signori locali e cercarono anche di conquistare nuovi territori ritenuti importanti per il consolidamento della loro posizione nel contesto europeo. Questa espansione fu favorita dalla riorganizzazione dell'esercito: le truppe mercenarie presero il posto degli eserciti feudali. I mercenari, che erano professionisti della guerra, erano più costosi dei soldati forniti dai signori territoriali (che provvedevano anche al loro mantenimento e all'equipaggiamento) ma erano più facili da mobilitare, dato che i signori e i loro soldati dovevano radunarsi da tutto il regno in un luogo stabilito. Oltre ad essere mobilitate in tempi più brevi, le truppe mercenarie erano anche più uniformi dal punto di vista della tecnica militare. Il crescente costo dell'esercito spinse i sovrani ad aumentare il prelievo fiscale servendosi di apparati burocratici più efficienti che entrarono in conflitto con i signori locali, che in passato si arrogavano il diritto di imporre le tasse nei propri domini. Il processo di rafforzamento del potere centrale andò in contrasto con gli interessi della nobiltà, a volte generando conflitti e in altri casi portando a delle forme di compromesso che inserivano i signori locali in rapporti di dipendenza feudale. I sovrani dovettero confrontarsi anche con nuovi ceti urbani che assunsero un ruolo economico e politico sempre più forte. Il processo di rafforzamento del potere centrale avviato da Filippo II Augusto fu proseguito dal figlio Luigi VIII e dal nipote Luigi IX. Il primo avviò l'espansione territoriale nei territori della Francia meridionale, impegnandosi nella crociata contro gli albigesi. Egli cercò di rafforzare il ruolo del re di Francia richiamandosi al passato carolingio: i capetingi furono presentati come eredi della dinastia carolingia e su questo legame (in realtà inesistente) posero le basi della propria legittimità. Luigi IX affermò con maggior vigore il carattere sacrale del ruolo di re (anche promuovendo due crociate), ricollegandosi anch'egli alla tradizione carolingia. Con le sue azioni portò a termine il disegno di rilancio dell'autorità regia sia sul piano ideologico che amministrativo e militare. Durante il suo regno si consolidarono le conquiste territoriali dei suoi predecessori e furono acquisiti nuovi territori come i domini dei Plantageneti in Francia (con la pace di Parigi del 1259) e la Sicilia (con l'accordo tra il papato e il fratello Carlo d'Angiò, che sconfisse gli eredi dell'imperatore Federico II). Luigi IX intraprese anche delle misure per riorganizzare l'amministrazione del regno. Introdusse l'obbligo per i vassalli di giurare fedeltà non solo al loro signore ma anche al re e avviò un processo di unificazione delle tradizioni giuridiche presenti nel regno. Pur religiosissimo, condusse un'opera di affermazione della propria autorità anche nei confronti dei vescovi. Con Luigi IX si concluse il progetto avviato da Filippo Augusto di affermazione della monarchia e i suoi successori ebbero il compito di consolidare le sue conquiste. Filippo IV il Bello cercò di limitare l'autonomia delle giurisdizioni ecclesiastiche all'interno del regno, entrando spesso in conflitto con il papa Bonifacio VIII e cercando anche di portare la Chiesa sotto il suo controllo trasferendo la sede apostolica da Roma ad Avignone. Si formò la “Chiesa gallicana”, una sorta di Chiesa nazionale che riconosceva il primato del papa nella sfera spirituale ma che era considerata un corpo dello stato francese. Dopo la sconfitta di Bouvines e la concessione della Magna Charta Libertatum, i re inglesi dovettero confrontarsi con l'alta nobiltà, la piccola nobiltà rurale e la borghesia cittadina. Enrico III fu costretto a concedere più volte delle limitazioni al potere del re. Le rivolte da parte dei nobili delle campagne furono domate solo grazie all'intervento militare del sovrano. Con la fine dei conflitti interni venne avviato un programma di rafforzamento dell'organizzazione amministrativa, che consentì l'aumento delle entrate fiscali, e dei rapporti vassallatici tra nobili e re. Il suo successore Edoardo I avviò delle imprese militari che permisero all'Inghilterra di estendere i propri domini su tutta l'isola britannica con l'annessione del Galles e l'invasione della Scozia. Queste conquiste furono un tentativo di rafforzamento militare e territoriale della monarchia. Nella penisola iberica, dove nella parte settentrionale si erano consolidati i regni cristiani di Portogallo, Castiglia, Aragona e Navarra, andò avanti la reconquista ai danni dei musulmani. Il regno di Portogallo si estese sulla costa atlantica, il regno di Castiglia nella parte centrale della penisola e il regno di Aragona lungo la costa mediterranea. Il regno di Navarra non riuscì ad espandere i propri territori, schiacciato da Castiglia e Aragona. Nel regno di Castiglia i sovrani promossero il popolamento delle zone urbanizzate, mentre nelle zone rurali si affermarono le proprietà signorili ed ecclesiastiche. I signori locali e i sovrani entrarono spesso in contrasto riguardo l'omogeneità dell'ordinamento giuridico e amministrativo. I contrasti vennero risolti con la convocazione di parlamenti (cortes), ovvero delle assemblee rappresentative, con cui i signori e i sovrani trovarono degli accordi. Nel regno di Aragona, invece, la sovranità si basava sull'accordo tra re e ceti dominanti finalizzato al mantenimento delle leggi consuetudinarie. Le cortes assunsero un potere di controllo della nobiltà sull'operato dei sovrani. L'economia aragonese era basata soprattutto sul commercio, motivo per cui spesso i sovrani tentarono di espandersi al di fuori della penisola. Nel 1282 gli aragonesi intervennero nella rivolta in Sicilia contro Carlo d'Angiò (secondo la tradizione, la causa della rivolta sarebbero state le molestie dei soldati francesi nei confronti di una nobildonna palermitana). Con la pace di Caltabellotta nel 1302 venne riconosciuto il potere degli aragonesi in Sicilia; successivamente essi strapparono la Sardegna al dominio di Pisa. L'espansione inglese in Galles e Scozia, quello aragonese in Sicilia e quello francese in Italia meridionale segnarono l'inizio di un periodo di conflittualità internazionale per l'egemonia degli stati.
PAPATO UNIVERSALE E STATO DELLA CHIESA A partire dal XII secolo il papato cominciò a riorganizzarsi dal punto di vista territoriale, istituzionale e amministrativo giungendo perfino a esercitare il suo potere sulle città e i suoi nobili, che in precedenza godevano di autonomia e indipendenza. La riorganizzazione del papato si differenziò da quella delle monarchie e dei comuni per il prestigio spirituale che gli era connesso e per il carattere elettivo della monarchia. Il papa si trovò ad essere il vertice della gerarchia ecclesiastica, il punto di riferimento per l'intera cristianità e il detentore di un potere temporale. Il primo cambiamento riguardò l'elezione del papa: prima della metà del XII secolo i papi venivano scelti da un'assemblea formata dai soli cardinali vescovi e tale scelta doveva essere poi confermata con l'acclamazione da parte del popolo di Roma. I contrasti tra chi sosteneva l'estensione del corpo elettivo a tutti i cardinali e chi poneva l'attenzione sulla volontà del popolo si risolsero nel 1179, quando durante il terzo concilio lateranense il papa Alessandro III introdusse la possibilità a tutti i cardinali di partecipare all'assemblea per eleggere il papa. Nel secolo successivo si affermò definitivamente che l'elezione papale non doveva essere influenzata né dall'impero né dal popolo di Roma. Per accelerare la procedura di elezione, il papa Gregorio X stabilì che i cardinali si sarebbero dovuti riunire in uno spazio chiuso al quale nessun altro poteva accedere fino ad elezione avvenuta, il conclave. Oltre a poter eleggere il papa, i cardinali erano i più stretti collaboratori del papa: lo assistevano nel concistoro (il consiglio più importante dello stato pontificio), firmavano i provvedimenti presi dal papa e dibattevano le questioni su cui il pontefice doveva prendere le decisioni. I cardinali erano nominati direttamente dal papa. La loro nomina era un importante strumento di strategia politica per il papa, dato che i cardinali facevano parte della sua rete clientelare. Alla crescita dello stato pontificio si opponevano i signori territoriali, i comuni dell'Italia centrale e i sovrani normanni nell'Italia meridionale. Dalla metà del XII secolo l'impero tornò a scontrarsi con il papato per il controllo dei comuni del Nord fino alla pace di Venezia. Dopo la morte di Federico Barbarossa e con la minore età di Federico II l'espansione dello stato pontificio poté riprendere: il papa Innocenzo III ottenne la fedeltà dei signori locali e comuni del Lazio, Umbria e Marche. I parlamenti locali erano presieduti da rettori di nomina pontificia. Lo stato pontificio concesse larghe zone di autonomia ai propri sudditi in materia fiscale, giudiziaria e militare. Si trattava di uno stato che aveva l'importanza strategica di dividere le due regioni che all'inizio del XIII secolo si trovavano sotto il controllo dell'impero. Alla morte di Federico II il papato chiese a Carlo d'Angiò di intervenire in Sicilia per scacciare gli svevi. Dopo averli sconfitti, Carlo si liberò dall'influenza papale e iniziò ad esercitare lui stesso un'influenza sul papa. Nello stesso periodo lo stato pontificio estese i suoi domini anche in Romagna con l'intervento militare. La presenza angioina in Sicilia terminò nel 1282, dopo la rivolta dei Vespri siciliani di cui approfittarono gli aragonesi. Nonostante l'espansione territoriale lo stato pontificio conservò le proprie debolezze date dalla mancanza di continuità dinastica (tipica delle monarchie) e dell'appoggio di ampi strati sociali (tipico dei comuni). Nonostante le debolezze lo stato pontificio godeva anche di punti di forza: la riforma della Chiesa dell'XI secolo aveva dato vita ad una struttura gerarchica al cui vertice c'era il capo di tutta la cristianità, il papa. Questo permetteva di riscuotere le tasse da tutta Europa e di intervenire nelle sfere di competenza di tutti gli ecclesiastici. Il papa riuscì a consolidare la propria regalità elaborando una figura di sovrano assoluto che nei secoli successivi ispirò le monarchie europee. Il papa riscuoteva sia le tasse che gli spettavano in quanto sovrano, per il mantenimento dello stato pontificio, sia quelle spettanti in quanto signore territoriale, ovvero i versamenti che i contadini gli dovevano obbligatoriamente corrispondere. Dal punto di vista giurisdizionale il papa rafforzò il controllo che esercitava nei confronti dei vescovi cittadini, dei monasteri e delle chiese locali. Cambiò anche il modo di nominare i vescovi: in precedenza la nomina vescovile era affidata al clero della diocesi; su iniziativa del papa Bonifacio VIII questa prerogativa divenne un'esclusiva del pontefice. La difficoltà di pacificazione interna del territorio e il deficit tra entrate e uscite furono i segni più evidenti della debolezza dello stato pontificio. Tuttavia la figura del papa risultava superiore a quella degli sovrani, grazie al potere spirituale che solo lui deteneva. Con la bolla Unam sanctam del 1303, il papa Bonifacio VIII sancì la superiorità del papa rispetto a tutti gli altri poteri esistenti, attribuendosi il diritto di scegliere, deporre e sostituire gli imperatori. La redazione dell'Unam sanctam era rivolta a rilanciare la figura del papa e la centralità di Roma in un momento in cui da molte parti si levavano voci di protesta che auspicavano un rinnovamento della Chiesa e un ritorno ai valori del Vangelo. Nel 1300 il papa istituì il giubileo, offrendo l'indulgenza (ovvero la remissione di tutti i peccati) a chi avesse visitato Roma. L'Unam sanctam fu redatta anche per opporsi alla decisione di Filippo IV il Bello re di Francia di tassare anche il clero (che in precedenza godeva dell'immunità) durante la riorganizzazione fiscale della Francia. Filippo il Bello reagì con una spedizione ad Anagni, sostenuta dalla famiglia romana dei Colonna (nemici di Bonifacio VIII), per prelevare il papa e farlo processarlo da un tribunale francese per essersi opposto al re di Francia. L'operazione non andò a buon fine ma alla morte del papa Filippo il Bello riuscì a far eleggere papa un suo candidato, Clemente V, e fece spostare la sede papale ad Avignone. Sebbene il periodo avignonese sia spesso giudicato come una parentesi negativa in cui il papato fu sottoposto al controllo da parte della monarchia francese, la curia continuò a perfezionarsi anche grazie all'assenza dei conflitti delle famiglie aristocratiche romane. Proseguì anche l'accentramento che tolse autonomia alle chiese locali. Facendo perno sulle corti di Parigi e Napoli, i papi riuscirono a creare un fronte guelfo esteso su tutta l'Europa. Nel 1378, alla fine del periodo avignonese, nuovi conflitti interni aprirono una stagione di scontri tra il papa e i cardinali che pose fine all'idea teocratica di pontefice. Eresie e ordini mendicanti L'affermarsi di uno stato pontificio e del potere temporale della Chiesa suscitò molti disagi all'interno della cristianità occidentale, che nell'azione dei papi vedeva dimenticati gli ideali evangelici. Nacquero nuovi movimenti spontanei di protesta che ebbero destini diversi: alcuni furono ricondotti all'interno della Chiesa; altri, invece, furono condannati come eresie. Ebbero grande riflesso politico perché tendevano a sovvertire l'ordinamento ecclesiastico e mettevano in discussione l'autorità della Chiesa di Roma. All'inizio dell'XI secolo nella Francia meridionale ci fu un grande stimolo alla predicazione ortodossa, portata avanti da semplici preti e contadini considerati ignoranti e marginali dalle alte sfere del clero. Tutte queste predicazioni erano accomunate dal ricorso a pratiche ascetiche di purificazione, dal rifiuto della mediazione ecclesiastica e dall'impulso alla lettura della Bibbia da parte dei fedeli. A favorire lo sviluppo di nuove predicazioni fu la protesta dei laici contro la corruzione del clero, la ricchezza degli ecclesiastici e la prepotenza politica dei vescovi. Si trattava di una rivolta morale nei confronti della Chiesa, non di un rifiuto della dottrina cristiana. Questi movimenti, infatti, non andavano in contrasto con i dettami cristiani. Tuttavia molti di questi furono definiti ereticali da parte della Chiesa, come nell'XI secolo il movimento della “patarìa” a Milano (nonostante fosse stata inizialmente sostenuta dal papa Gregorio VII) o tra il XII e il XIII secolo quello del valdismo (da Valdo, un mercante di Lione che iniziò a predicare e a vivere in povertà). La Chiesa cercò di mantenere il monopolio della predicazione e dei riti di salvezza per l'uomo. I seguaci di Valdo, invece, ritenevano molto importante la predicazione da parte dei laici (anche delle donne). Un'altra eresia fu quella del catarismo. Non era un movimento proiettato su ideali di pauperismo e ritorno ai valori evangelici, ma basato su una dottrina fortemente in contrasto con quella cristiana. I catari professavano una religione di stampo dualistico, cioè credevano nell'esistenza di due princìpi eterni (bene e male) e antecedenti alla creazione, che si affrontavano senza sosta. Il mondo terreno era considerato come l'opera di Satana (individuato nel dio dell'Antico Testamento) per imprigionare le anime all'interno dei corpi e impedire loro di avvicinarsi a Dio. Il catarismo si diffuse in tutti gli strati sociali e si organizzò in una struttura gerarchica del tutto simile a quella della Chiesa di Roma: il territorio di diffusione del catarismo venne diviso in circoscrizioni territoriali (simili alle diocesi cattoliche) guidate da una gerarchia di sacerdoti di ordine superiore (simili ai vescovi cattolici). Per i catari la lotta tra bene e male coinvolgeva tutti e il solo modo per raggiungere la salvezza era quello di liberarsi della materia attraverso una continua opera di purificazione (in alcuni casi estremi i catari arrivavano persino a lasciarsi morire di fame). La promessa di una liberazione dal male e il carattere di opposizione alla Chiesa favorirono la diffusione del catarismo in Italia settentrionale. L'ampia base sociale su cui questa dottrina poggiava garantì ai catari l'accesso alla politica per opporsi all'influenza del papa sui comuni dove predicavano apertamente. La Chiesa mise al bando le eresie e agli inizi del XIII secolo organizzò addirittura una crociata contro i catari di Albi (in Francia meridionale). Il papa Innocenzo III e l'imperatore Federico II ordinarono la pena di morte per gli eretici. Per la Chiesa, oltre al problema della repressione dei movimenti pauperistici spontanei, si poneva anche quello di mantenere il monopolio della predicazione e del proselitismo. La Chiesa accolse al proprio interno il movimento domenicano e quello francescano, una mossa che si rivelò vincente. Il primo venne fondato da Domenico di Guzmán, un sacerdote missionario che si occupò di convertire gli eretici della Francia meridionale proponendo un ideale di cristianità ortodossa fondato su una povertà esemplare e su una vasta preparazione teologica. Grazie a quest'opera di proselitismo, l'ordine domenicano venne chiamato anche “ordine dei frati predicatori”. Essendo un ordine mendicante, i domenicani non avevano alcuna proprietà e potevano sopravvivere solo con quanto veniva dato loro in elemosina. L'ordine dei francescani (altro ordine mendicante) venne fondato da Francesco da Assisi. Egli iniziò un percorso di predicazione in povertà, raggruppando attorno a sé un piccolo gruppo di discepoli. Il movimento francescano non aveva differenze sostanziali con gli altri movimenti pauperistici osteggiati dalla Chiesa. Il movimento crebbe in tutta Europa e in Italia venne fondato l'ordine francescano facendo approvare dal papa una regola che eliminò gli aspetti più radicali della sua predicazione. Questo compromesso scatenò la divisione all'interno dei francescani tra i moderati (coloro che accettavano di conciliare gli ideali evangelici con una strutturazione in un ordine) e i radicali (coloro che rimasero fedeli all'esempio di vita di Francesco), che rischiarono di sfociare nell'eresia. Successivamente la Chiesa soppresse tutti gli ordini mendicanti tranne i domenicani, i francescani e gli eremiti agostiniani. A differenza degli altri ordini, che si svilupparono nelle campagne, quelli mendicanti si stabilirono in conventi ai margini delle città, dove predicavano e cercavano di impedire i conflitti sociali e il nascere di eresie. Tuttavia questi ordini crearono attriti con il clero tradizionale. L'approvazione degli ordini mendicanti fu decisiva per la lotta all'eresia. Francescani e dominicani tolsero consensi agli eretici grazie alla loro predicazione organizzata e all'esempio di una vita in povertà ma nei canoni dell'ortodossia. Un altro strumento di lotta all'eresia fu l'istituzione della Santa Inquisizione, un tribunale dipendente dal papa con poteri giurisdizionali speciali in materia di fede. La lotta tra ortodossia ed eterodossia si fece sempre più violenta. L'influenza di Carlo d'Angiò nei comuni guelfi favorì il conformismo religioso: in politica l'accusa di eresia divenne uno strumento in mano ai guelfi per opporsi ai ghibellini. Nel XIV secolo altri movimenti eretici vennero repressi con la violenza, sia per le predicazioni non autorizzate che per motivi politici (i movimenti eretici sostenevano i ghibellini per opporsi alla Chiesa). L'idea di una religiosità più autentica e rigorosa rimase un elemento di rivolta sociale (per via delle tasse da pagare alla Chiesa) e politica nei confronti del papato. Questi temi vennero ripresi nel XVI secolo dal monaco agostiniano Martin Lutero.
CRISI E NUOVI EQUILIBRI Nel XIV secolo si verificarono alcuni eventi drammatici: una serie di cattivi raccolti colpì le campagne europee, la peste si diffuse in tutta l'Europa dal 1348 e gli eserciti delle maggiori monarchie furono impegnati in campagne militari fallimentari. Dopo l'espansione economica dei secoli precedenti si ebbe una profonda depressione. Dopo lo sconvolgimento degli equilibri economici venne avviata una riorganizzazione produttiva che pose le basi dell'economia moderna. L'espansione economica iniziata nell'XI secolo proseguì anche nel XIII secolo grazie alla stabilizzazione delle strutture politiche, all'aumento di controllo sui territori e ad una fase climatica favorevole. Il ripristino della sicurezza lungo le principali vie di collegamento favorirono la ripresa dei commerci su larga scala. Ciò permise l'affermarsi di grandi fiere specializzate nella compravendita di stoffe, tinture e spezie. La produzione di tessuti aumentò anche grazie all'impiego di nuovi macchinari. L'intensificazione dei commerci aumentò la domanda di moneta, favorendo la produzione di nuova moneta (riprese la coniazione di monete d'oro, che in Europa non veniva più coniata dall'età carolingia), e spinse molti mercanti a costituire delle compagnie mercantili per sostenere le imprese commerciali e finanziare i viaggi d'affari: i mercanti raccoglievano dei finanziamenti da persone alle quali, al ritorno, restituivano la somma prestata più una parte dei guadagni. Nacquero anche i banchi, istituti specializzati nello scambio e nel prestito di moneta. Lo sviluppo economico e il consistente aumento demografico provocarono dei flussi migratori verso le aree produttive: nel XIII secolo ci furono spostamenti dalle campagne alle città. Questi spostamenti tolsero manodopera alle aree rurali e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città. Il miglioramento degli attrezzi agricoli e l'introduzione della rotazione triennale non furono sufficienti a soddisfare la domanda. Vennero messe a colture anche terre particolarmente esposte alle intemperie e dalla bassa resa. La messa a coltura di terre marginali e la crescita della popolazione urbana furono le basi della crisi del XIV secolo. Le contraddizioni dello sviluppo economico del XIII secolo emersero nel successivo, con una serie di cattivi raccolti che portarono a gravi carestie. Si trattò di una crisi alimentare generalizzata, non circoscritta a singoli territori, e il mercato non era in grado di compensare le scarse rese agricole. I prezzi subirono una rapida impennata che rese molto difficoltoso l'acquisto degli alimenti da parte della popolazione urbana. Anche le campagne vissero momenti drammatici. Le risorse per l'autoconsumo dei contadini non sempre bastavano e gli scarsi raccolti aumentarono i flussi migratori verso le città, dove risiedevano le speranze di migliori condizioni di vita. Questa speranza, però, era infondata: le città dovevano affrontare i problemi di approvvigionamento e cercarono di evitare l'arrivo di nuova gente che avrebbe accresciuto la domanda di cibo. Gli eventi meteorologici furono una causa minore; la crisi ebbe origine negli scompensi generati dall'evoluzione economica e demografica alla fine del XIII secolo. Oltre alle carestie, l'Europa fu segnata anche dalla diffusione della peste nera, una malattia infettiva che nella sua forma bubbonica aveva un altissimo tasso di mortalità e si manifestava con diversi sintomi (tra cui la comparsa di bubboni nell'inguine e nelle ascelle). La diffusione della peste fu rapidissima e gli uomini del tempo non riuscirono a individuarne le cause (anche perché non si era più diffusa in Europa dal VI secolo, dopo la guerra greco-gotica, perciò erano sconosciute le sue caratteristiche e le possibili cure), scoperte secoli più tardi, e interpretarono la malattia come un castigo divino o una manifestazione del male. Oggi si sa che la peste si diffonde tramite la puntura di una pulce che risiede sotto il pelo del ratto nero. Pare che questi ratti fossero arrivati in Europa tramite un carico di stoffe (in mezzo alle quali si erano annidati) proveniente dall'Asia. La peste rimase in Europa fino al XVIII secolo e colpì soprattutto i ceti più bassi, che vivevano in condizioni igieniche precarie e con un'alimentazione povera e non risiedevano in luoghi isolati e sicuri. Il ruolo della peste nella cosiddetta “crisi del '300” è stato (ed è ancora) oggetto di dibattito. Secondo l'economista Thomas Robert Malthus, l'aumento demografico procede in maniera molto più veloce rispetto all'aumento dei mezzi di sostentamento (la popolazione aumenta geometricamente, mentre il cibo aumenta aritmeticamente). Secondo Malthus, quindi, la miseria è un fattore positivo perché impedisce ai poveri di fare figli e alza il tasso di mortalità, abbassando la popolazione e riportando l'equilibrio del rapporto tra popolazione e risorse (che va a vantaggio della collettività). Per gli studiosi neomalthusiani, sebbene la crisi fosse iniziata ben prima della diffusione della peste, l'epidemia ha contribuito a riportare l'equilibrio tra livello demografico e capacità produttiva. Sempre secondo i neomalthusiani la crisi avrebbe portato alla concentrazione delle ricchezze in mano a un gruppo ristretto di persone poterono investire nella attività produttive (anche in quelle artistiche e culturali; nonostante la crisi il XIV secolo fu molto proficuo dal punto di vista delle arti). Secondo Marx la crisi fu un lungo periodo di transizione tra il modo di produzione feudale e quello capitalistico. La crisi fu la manifestazione di una più ampia trasformazione economica e sociale. La peste accelerò i cambiamenti economici e sociali messi in atto dalla crisi: le terre che rendevano meno furono abbandonate e il numero di contadini diminuì a causa della morte o dell'emigrazione. Le zone abbandonate furono sostituite dall'incolto (boschi e paludi). L'abbandono delle terre marginali portò a un aumento dell'attività pastorizia e alla riorganizzazione delle terre coltivate in cui iniziarono ad affermarsi nuove colture specializzate (riso, lino e gelso). Nelle campagne si diffusero le prime forme di agricoltura intensiva e la mezzadria sostituì i rapporti di lavoro precedenti: i proprietari dividevano le loro terre in poderi, delle aziende dotate di una casa per i contadini e delle strutture necessarie al lavoro, e i contadini dovevano lavorare la terra, migliorarla aumentandone la produttività e versare al proprietario la metà del raccolto. L'introduzione della mezzadria portò a un generale incremento produttivo ma anche a un maggior sfruttamento del lavoro contadino da parte dei proprietari. Questa nuova forma di oppressione diede luogo a moti e rivolte da parte dei contadini (in Francia si ebbe l'insurrezione contadina chiamata “jacquerie”, termine che andò a designare in maniera dispregiativa la rozzezza e la limitatezza culturale, e in Inghilterra i contadini protestarono per le tasse che avrebbero dovuto finanziare la guerra dei cent'anni). Anche l'attività manifatturiera e commerciale si rinnovò profondamente. Si affermò un nuovo sistema produttivo basato sulla divisione del lavoro e sull'impiego di artigiani salariati che all'interno di laboratori svolgevano soltanto una fase del ciclo produttivo, che veniva razionalizzato e sveltito. Nel XIII secolo si costituirono le corporazioni, associazioni di persone che operavano nello stesso settore produttivo. Le corporazioni si dotarono di strumenti di autogoverno e di statuti propri che stabilivano le modalità di produzione e di vendita, gli orari di lavoro e gli standard di qualità dei prodotti. Le corporazioni riunivano i proprietari e i capi delle botteghe, i collaboratori e gli apprendisti; i lavoratori salariati ne erano esclusi. Privati di tutela e di rappresentanza, i lavoratori salariati nel corso del XIV secolo si resero protagonisti di rivolte urbane per chiedere rappresentanza negli organi istituzionali cittadini e maggiori salari. In questo periodo si diffusero anche nuovi sistemi di contabilità, come la “partita doppia” (che separa in conti diversi le operazioni in dare e in avere), o di pagamento, come la lettera di cambio (una sorta di assegno). Questi sistemi permisero di gestire i commerci in modo più proficuo. La ripresa delle attività commerciali portò allo sviluppo delle attività creditizie, che assunsero grande importanza non solo per il commercio: anche i sovrani, impegnati in lunghe e costose guerre, ricorsero all'aiuto dei banchieri, soprattutto a quello fiorentini. Verso la metà del secolo alcune banche di Firenze fallirono a causa dell'insolvenza di Edoardo III re d'Inghilterra, creando una reazione a catena che portò al fallimento di molte compagnie mercantili. Questo evento rese evidente la necessità di ristrutturare il sistema bancario: le banche vennero divise in filiali con indipendenza amministrativa e finanziaria per evitare che il fallimento di una non portasse al fallimento delle altre. La crisi permise una riforma di tutto il sistema economico e sociale.
GLI STATI REGIONALI IN ITALIA Il processo di ricomposizione territoriale che nel XII secolo prese avvio ad opera delle grandi monarchie, in Italia fu condotto dai comuni. La conquista dei contadi diminuì il numero dei poteri presenti sul territorio. Tuttavia il risultato raggiunto dai comuni fu mediocre rispetto a quello delle monarchie europee: i comuni avevano esteso i loro domini su aree di ridotte dimensioni. A partire dal XIV secolo si affermarono cinque stati regionali che sostituirono la moltitudine di poteri data da comuni e signorie territoriali inglobandoli attraverso una lunga serie di guerre al termine delle quali gli stati vincitori si trasformarono nella struttura interna, innescando la necessità di maggiori entrate. L'espansione territoriale portò gli stati a promuovere riforme amministrative e fiscali e a rifondare le relazioni con i poteri che avevano assoggettato. I conflitti locali tra i comuni si inquadrarono in due schieramenti: i guelfi, sostenitori del papa, e i ghibellini, sostenitori dell'imperatore. Questi fronti caratterizzarono l'azione politica delle città e dei gruppi che al loro interno si scontravano. La coordinazione guelfo-ghibellina fece sì che gli eventi della politica internazionale ebbero ripercussioni sui conflitti locali. Nel regno meridionale i due schieramenti si scontrarono con la rivolta dei Vespri nel 1282: i guelfi si allearono con gli angioini, capeggiati da Carlo d'Angiò che era alleato con il papa e con i comuni guelfi, mentre i ghibellini si allearono con gli aragonesi. Ai ghibellini, dopo la morte di Federico II e l'estinzione della dinastia sveva, mancava una figura di riferimento a causa del disinteresse degli imperatori successivi riguardo le vicende italiane, perciò la loro azione politica fu indirizzata più ad opporsi al papa che a favorire l'impero che difficilmente sarebbe intervenuto. Nel XIV secolo l'imperatore Enrico VII consolidò il potere dei signori ghibellini (i Visconti a Milano e gli Scaligeri a Verona), che permise a Milano di espandersi in tutta la Lombardia, a Verona di assoggettare le città venete e a Pisa di contrastare Firenze e i guelfi. Negli anni successivi questa divisione cominciò a perdere significato: la lotta tra guelfi e ghibellini lasciò spazio alla conservazione degli equilibri politici e militari della penisola, condizionati da un numero sempre minore di soggetti politici (anche a causa delle alleanze tra guelfi e ghibellini per evitare l'affermarsi di altri poteri. L'ampliamento di scala dei conflitti portò alla riorganizzazione degli eserciti (che nei secoli precedenti erano organizzati in cavalieri e fanti in base alla capacità economica): dato che pochi erano disposti a combattere a grande distanza dal luogo di origine si iniziò ad assoldare soldati mercenari. Questo aumentò le spese militari e venne quindi riformato il sistema di prelievo fiscale e di redistribuzione delle risorse. Si affermò la pratica del debito pubblico consolidato, secondo cui i cittadini investivano in titoli emessi dallo stato che davano diritto alla riscossione di un interesse. Si affermò anche la cosiddetta “venialità delle cariche”, ovvero la vendita di cariche pubbliche. Questi sistemi consentirono agli stati di aumentare le risorse. Allo stesso tempo si sviluppò una struttura burocratica centralizzata con il compito di prelevare e redistribuire le risorse, ma anche di smistare le informazioni. Nacquero nuove università che dovevano formare persone in grado di svolgere le pubbliche funzioni. Nonostante la diversità degli organismi politici del secolo precedente (sia nella struttura istituzionale che nel rapporto con il territorio), i nuovi stati regionali si trovarono ad affrontare gli stessi problemi. Per raggiungere lo stesso risultato, però, le strade percorse furono diverse. A Milano i Visconti operarono una monopolizzazione di alcune cariche pubbliche e legittimarono il loro potere con il titolo di vicario, ovvero rappresentante dell'imperatore. Alla fine del XIV secolo Gian Galeazzo Visconti ricevette dall'imperatore il titolo di principe e duca: la presenza di questa nuova figura (a cui era affidata la nomina dei membri dei consigli più importanti) mutò profondamente l'assetto comunale. La città riuscì ad assoggettare un contado molto vasto che comprendeva tutta la Lombardia e parti di Piemonte, Veneto ed Emilia. Tramite relazioni feudali i Visconti riuscirono ad insediare uomini fidati alla guida delle città conquistate, facendo leva sul bisogno di una guida che fosse estranea alle fazioni locali per garantire la pace interna. Firenze, invece, sfruttò la sua posizione strategica in Toscana e la grandissima disponibilità di denaro per sottomettere indirettamente le zone circostanti. Le città sottomesse avevano già conquistato i loro contadi, quindi Firenze si trovò a dominare realtà già disciplinate. I contadi acquisiti vennero frazionati e alcune città (come Pisa, conquistata agli inizi del XV secolo) subirono l'annullamento di ogni potere. In questo modo Firenze diede vita a una gestione dello stato fortemente centralizzata. Venezia veniva invece governata in un consiglio formato da una classe ristretta: potevano accedere al consiglio solo gli eredi dei consiglieri. Venezia rivolse la sua attenzione all'Adriatico e all'oriente, evitando di lanciarsi alla conquista del contado fino alla metà del XIV secolo. Gli aragonesi conquistarono la Sicilia nel 1282 e l'Italia meridionale nel 1442. Alla morte del re Pietro III i signori locali della Sicilia si intromisero nella contesta tra i successori dividendosi in due fazioni. La salita al trono di Federico III separò la corona d'Aragona, affidata ad un altro re, da quella siciliana. Nel regno di Napoli la debolezza del re fu aggravata dall'indebitamento nei confronti dei banchieri fiorentini (che prestavano denaro in nome di un'alleanza tra guelfi). Anche qui nacquero delle divisioni in seguito a dispute per la successione dinastica. Per contrastare il potere dei signori locali, il re fu costretto alla convocazione di assemblee rappresentative della nobiltà e delle città. L'abbandono del progetto di teocrazia universale da parte dei pontefici spinse questi ultimi a concentrarsi nel consolidamento del loro potere in Italia centrale. Durante il soggiorno dei papi ad Avignone, i signori locali dello stato pontificio accrebbero il loro potere. Cavalcando il malcontento generato dalla mancanza delle entrate legate alla presenza della curia pontificia, il notaio Cola di Rienzo occupò Roma presentandosi come “tribuno della plebe” per rinnovare la grandezza imperiale dei tempi classici ma la sua avventura finì dopo pochissimi anni per una congiura aristocratica. Il papa prese in mano il governo dello stato pontificio nonostante la distanza che lo separava dal suo territorio e impose ai signori locali e alle città il riconoscimento dell'autorità papale. Dopo la scomparsa dei poteri inglobati dagli stati regionali, arrivò l'ora del conflitto tra questi ultimi. Nella seconda metà del XIV secolo si formarono delle leghe per opporsi all'espansione di Milano, che sotto i Visconti riuscì ad espandersi conquistando Verona (cessò la signoria degli Scaligeri), Padova, Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e Bologna. Queste città, tuttavia, tornarono a manifestare la volontà di autonomia. La crisi di successione dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti favorì l'espansione delle repubbliche di Venezia (in Veneto e in parte della Lombardia) e Firenze (lungo il Tirreno, compresa Pisa che aveva una ricchezza e un prestigio paragonabile a quelli fiorentini). I motivi dell'improvvisa espansione di Venezia furono la concorrenza di Genova sul Mediterraneo e il bisogno di investire sulla terraferma le ricchezze ricavate dal commercio. Alle città assoggettate da Venezia fu lasciata una certa autonomia. A fine secolo nel regno di Napoli scoppiò la lotta di successione che contrappose i durazzeschi (sostenitori di Carlo di Durazzo) e gli angioini (sostenitori di Luigi d'Angiò). Questa divisione spianò la strada alla conquista del regno da parte degli aragonesi nel 1442, che riunirono i regni meridionali sotto una sola corona. Delle divisioni si ebbero anche nello stato pontificio: il papa Gregorio XI nel 1377 riportò la curia pontificia a Roma e generò lo scontento dei cardinali filo-francesi, che volevano riportare la sede ad Avignone ed elessero un secondo papa. Da questa divisione si originò il cosiddetto “scisma d'occidente”, che durò oltre trent'anni e terminò solo con il concilio di Costanza nel 1417 che riuscì ad imporre un unico papa. Nel XV secolo lo stato milanese si risollevò grazie a Filippo Maria Visconti, che avviò una politica di recupero dei territori persi, e nel 1450 fu acclamato duca Francesco Sforza, suo genero e “capitano di ventura” (ovvero comandante di truppe mercenarie). Tuttavia non furono raggiunte le dimensioni del territorio del secolo precedente. Il processo di riorganizzazione interna, il complessivo ridimensionamento della forza di espansione di alcuni stati regionali e la caduta dell'impero bizantino nel 1453 ad opera dei turchi ottomani (che fece venir meno un fondamentale appoggio commerciale ed economico) favorirono la ricerca di un compromesso che garantisse il mantenimento degli equilibri. La pace di Lodi nel 1454 fissò i confini degli stati regionali: Milano, Venezia e il Ducato di Savoia a Nord; Firenze, Siena e lo stato pontificio al centro; il regno riunificato dagli aragonesi a Sud.
VERSO LA FORMAZIONE DEGLI STATI NAZIONALI Nel corso del XIV e del XV secolo si stabilizzò l'organizzazione politico-amministrativa e l'estensione territoriale delle monarchie che si erano formate nei due secoli precedenti. Questa fase è stata spesso individuata come il momento di passaggio verso gli stati nazionali dell'età moderna ma in realtà il processo di costruzione delle monarchie nazionali (che hanno solo alcune cose in comune con gli stati moderni) riguardò solo Francia e Inghilterra. Altrove, invece, i poteri territoriali regionali continuarono a prevalere. Nel XIV secolo i vari stati europei dovettero far fronte a problemi comuni: la presenza di poteri locali, l'ascesa di nuove élite sociali, la crisi economica e le lotte per la successione al trono. In questa società complessa i sovrani elaborarono nuovi sistemi per controllare in maniera più diretta il territorio. I re si legittimarono come coloro che mantenevano la pace all'interno dei loro regni. Per mantenere l'ordine pubblico e la giustizia istituirono (o ampliarono, se già esistente) una rete di funzionari salariati (gli ufficiali) direttamente dipendenti dal re. A seconda della funzione che dovevano svolgere venivano reclutati in base alle competenze o all'estrazione sociale. Per rendere efficace questo sistema era necessario disporre dell'effettivo controllo sul territorio del regno e di un'ampia disponibilità economica: il primo fu raggiunto con dei corpi armati stabili che garantivano l'ordine pubblico, mentre la seconda con nuove imposte. Ma il rafforzamento del potere regio sul territorio e l'estensione della fiscalità alterò gli equilibri e innescò nuove conflittualità. Per mediare le esigenze dei sovrani con quelle dei vari ceti si ricorse alla convocazione dei parlamenti in cui si riunivano i rappresentanti dei diversi ceti. Questi organi rappresentativi assunsero crescente importanza: essi aprirono un dialogo tra il sovrano e la società e contribuirono a creare una comunanza di interessi tra i diversi strati sociali (si passò dal regno al paese). In Francia e Inghilterra andò avanti il processo di affermazione del potere regio iniziato nel XIII secolo, che continuò nei due secoli successivi e fu collegato agli assetti territoriali che i due regni assunsero alla fine della guerra dei cent'anni. In Francia gli ufficiali ebbero un ruolo importante nella gestione della fiscalità: grazie all'introduzione dei catasti, che registravano tutti i nuclei familiari residenti in un dato territorio, fu possibile fare una previsione sommaria sulle possibili entrate fiscali. L'introduzione di nuove imposte, spesso inique perché non tenevano conto della disponibilità economica delle famiglie, generò moti e rivolte soprattutto nelle campagne. Il rafforzamento dell'autorità regia entrò in conflitto con i signori territoriali e le città, che avevano affermato il proprio potere nei secoli precedenti. I re francesi tentarono di integrare queste realtà locali nell'organizzazione accentrata del regno concedendo cariche ai membri dell'aristocrazia e ricorrendo alla convocazione degli “Stati Generali”, un'assemblea in cui venivano rappresentati tre principali strati sociali: clero, nobiltà e i ceti urbani in ascesa (in seguito chiamati Terzo Stato). Gli Stati Generali vennero convocati inizialmente durante la lotta francese contro il papato e servì a manifestare l'approvazione di tutte le componenti del regno alle scelte del sovrano, oltre che ad attutire i conflitti fra i diversi interessi sociali. L'azione dei re francesi fu piuttosto contraddittoria: nonostante gli sforzi per espandere territorialmente il regno e dargli un'omogeneità amministrativa, fiscale e legislativa, furono assegnati importanti territori a membri della casa reale che li governavano in autonomia. Dopo la guerra dei cent'anni, in Francia il potere monarchico si rafforzò in maniera decisiva grazie al sorgere di un sentire comune e di un legame tra re e popolo che favorì l'omogeneizzazione politico-amministrativa del regno. In Inghilterra il Parlamento conquistò un ruolo centrale nella politica del regno. La Magna Charta Libertatum di Giovanni Senza Terra nel 1215 conferì un ruolo importante all'assemblea che rappresentava la nobiltà e il clero, la cui approvazione era vincolante alla possibilità di introdurre nuove imposte. A causa dell'impellente necessità di trovare nuovi fondi per finanziare l'esercito il parlamento cominciò ad essere convocato con una certa regolarità. A metà del XIV secolo si affermò un modello bicamerale: il Parlamento si divise nella “camera dei lord”, formata dai nobili (i cui rappresentanti erano nominati dal re), e nella “camera dei commons (o comuni)”, formata dalla piccola nobiltà locale (i cui rappresentanti erano eletti localmente). Questo sistema permise al regno di superare momenti di crisi dati dalle insurrezioni popolari scoppiate contro l'eccessivo carico fiscale, dalla guerra dei cent'anni e dalla guerra delle due rose scoppiata nel 1455 (la contesa della corona inglese tra le casate Lancaster e York, nei cui stemmi figurava una rosa, terminata con l'ascesa al trono di Enrico VII, esponente della dinastia Tudor e imparentato con entrambe le famiglie contendenti). Le storie di Francia e Inghilterra erano legate tra loro dal 1066, quando Guglielmo duca di Normandia conquistò l'Inghilterra. Da allora i due regni si caratterizzarono per una commistione delle aristocrazie. Per il rafforzamento del potere regio in Francia però divenne inaccettabile la presenza di interessi e diritti dei sovrani inglesi in territorio francese. Nel 1328, alla morte di Carlo IV re di Francia, si aprì la disputa per la successione al trono: Edoardo III re d'Inghilterra rivendicò il diritto a salire al trono in virtù della sua parentela con il re scomparso ma venne incoronato un lontano parente, Filippo VI. Il dominio della dinastia dei capetingi finì lasciando il posto alla dinastia dei Valois. Edoardo III mosse guerra contro la Francia dando il via ad un conflitto che durò più di un secolo, la cosiddetta guerra dei cent'anni. La crisi dinastica rappresentò per Edoardo III anche un ottimo pretesto per dichiarare guerra alla Francia con l'intento di mantenere i propri domini in territorio francese e cercare di conquistare (se non fosse riuscito ad ottenere l'intera Francia) almeno le Fiandre, regione strategica per ragioni commerciali. Nonostante i primi successi inglesi, ottenuti grazie alle qualità di un esercito all'avanguardia che faceva largo uso di fanteria, arcieri e armi da fuoco contro un esercito francese lento e imperniato ancora sulla cavalleria pesante, i conflitti sociali (soprattutto a causa della pressione fiscale) che scoppiarono in Inghilterra a metà del XIV secolo costrinsero i sovrani inglesi a concentrare le loro attenzioni sui problemi interni. Agli inizi del XV secolo ripresero gli scontri dopo una nuova crisi dinastica in Francia, causata dalla malattia del re Carlo VI che gli impedì di governare. Gli inglesi ottennero nuove vittorie, conquistando gran parte della Francia Nord-occidentale, compresa Parigi. In questa situazione disperata l'esercito francese fu guidato da Giovanna d'Arco, una giovane contadina mossa da una religiosità visionaria, che riuscì a liberare la città di Orléans dall'assedio nemico. Nonostante la sua cattura da parte degli inglesi, che la fecero condannare per stregoneria da un tribunale ecclesiastico, e la sua morte sul rogo, la Francia aveva avviato un'opera di riconquista dei territori persi e grazie ad alcune vittorie decisive riuscì a scacciare gli inglesi dal continente (ad eccezione della città di Calais, che rimase sotto il dominio dell'Inghilterra anche dopo la fine della guerra nel 1453). L'assetto territoriale scaturito dal conflitto caratterizzò i due regni per secoli, formando due stati con identità, popoli e culture ben definiti. L'affermarsi delle monarchie nazionali andò di pari passo al declino dell'impero e delle sue pretese universalistiche. L'autorità imperiale fu notevolmente ridimensionata negli anni successivi alla morte di Federico II, a metà del XIII secolo, quando sia in Italia che in Germania si affermarono degli stati territoriali sempre più autonomi. Agli inizi del XIV secolo, falliti i tentativi di Enrico VII di ridare vigore al ruolo imperiale in Italia, la sfera di influenza dell'imperatore si restrinse al solo territorio tedesco. A metà secolo si svincolò l'elezione imperiale dall'approvazione del pontefice: l'imperatore Carlo IV emanò la “bolla d'oro”, una costituzione che assegnò a sette grandi principi territoriali tedeschi il privilegio di eleggere il re di Germania, al quale sarebbe automaticamente spettato anche il titolo di imperatore senza la necessità di ottenere anche il titolo di re d'Italia e senza l'approvazione del papa. Il processo di rafforzamento dei poteri centrali che venne avviato in Francia e Inghilterra in Germania non riguardò l'impero ma gli stati territoriali che lo componevano. Gli stati tedeschi si dotarono di parlamenti (che in alcuni casi presero direttamente il potere e in altri riuscirono a influire sulle scelte dei signori territoriali) con i quali i principi riuscirono a diminuire la conflittualità tra gli strati sociali e a presentarsi come garanti della pace. L'imperatore doveva garantire la pace tra i singoli stati territoriali. Nel XIII secolo alcuni territori si staccarono dall'impero e formarono due stati: la confederazione svizzera e il principato religioso-militare dell'Ordine teutonico (situato lungo le coste del Mar Baltico, per convertire gli slavi). Tra il XIV e il XV secolo l'affermazione delle istituzioni monarchiche si verificò anche in Europa orientale, dove però sorsero degli stati più deboli e socialmente e politicamente meno articolati di quelli occidentali. Questi regni si caratterizzarono per lo stretto rapporto che si instaurò tra i sovrani e la nobiltà, senza coinvolgimento di altri ceti a causa della scarsa articolazione della società (con un basso sviluppo urbano e nelle zone rurali basata prevalentemente sulla grande proprietà fondiaria). I regni di Svezia e Norvegia non riuscirono ad affermarsi sui poteri regionali. Il regno di Danimarca non riuscì ad espandersi a causa della concorrenza delle città marinare tedesche. Svezia, Norvegia e Danimarca furono spesso unite per motivi dinastici ma nessun re riuscì ad avviare una riorganizzazione amministrativa e istituzionale, mentre invece vennero introdotti gli istituti feudali. Nell'area balcanica i turchi ottomano portarono al crollo del regno di Serbia e dell'impero bizantino. I Balcani divennero una regione di confine politico, religioso e culturale tra il mondo musulmano e quello cristiano. In quest'area i regni di Boemia e Ungheria furono gli unici ad assumere una struttura simile a quella dei regni occidentali. Nel regno di Boemia (che faceva parte dell'impero sin dall'età ottoniana, in cui il regno fu guidato dalla dinastia dei Lussemburgo) vennero rafforzati i poteri regi. L'imperatore Carlo IV e suoi successori favorirono l'ascesa ai posti chiave del regno di esponenti dell'aristocrazia tedesca, emarginando i boemi e favorendo lo sviluppo di un'identità boema. All'inizio del XIV secolo la corona di Ungheria passò agli angioini, che cercarono di riorganizzare il regno seguendo l'esempio della monarchia francese, ma nel 1380 per complesse questioni dinastiche il regno passò alla dinastia dei Lussemburgo per alcuni decenni. In Europa orientale i due maggiori stati erano il regno di Polonia e il Granducato di Lituana: il primo trovò l'unità territoriale e amministrativa grazie all'aiuto della Chiesa, che ben vedeva il formarsi di uno stato cattolico in una zona di prevalente fede greco-ortodossa, mentre il secondo si formò dall'unione delle varie tribù locali per difendersi dalle aggressioni dei russi e dei monaci-guerrieri teutonici. La conversione al cristianesimo del granduca Jagellone e della nobiltà consentì al sovrano di inserirsi nella crisi dinastica in Polonia e ottenerne la corona, dando vita ad un vasto stato polacco-lituano. Tra il XIV e il XV secolo nacque anche la Russia: nel XIII secolo il maggiore dei principati degli slavi orientali era il regno di Kiev, che crollò a causa dell'espansione dell'impero mongolo; il principato di Mosca riuscì ad espandersi territorialmente nel XIV secolo approfittando dell'indebolimento dei mongoli. Mosca, che rafforzò il suo prestigio divenendo il riferimento religioso dei cristiani ortodossi, divenne la capitale del nuovo stato. Sotto il regno di Ivan III il Grande (considerato il fondatore della Russia) nel XV secolo vennero conquistati anche gli altri principati minori. Tra il XIV e il XV secolo vennero riorganizzati i poteri monarchici anche nella penisola iberica, dove erano situati i regni cattolici di Aragona, Castiglia, Navarra e Portogallo e il reg€no musulmano di Granada a Sud. Questi regni, sebbene fossero molto eterogenei, furono tutti caratterizzati da crisi dinastiche. Nonostante il rafforzamento amministrativo ci furono molti conflitti tra sovrani e ceti sociali eminenti. Nel XV secolo Isabella, erede al trono di Castiglia, sposò Ferdinando, erede al trono d'Aragona. I due regni, uniti sul piano personale ma non su quello istituzionale, trovarono un collante nella fede religiosa, ridando vigore alla guerra contro i non cattolici della penisola: i re cattolici sostennero la lotta all'eresia, la persecuzione degli ebrei e la guerra al regno di Granada (che cadde segnando la fine della presenza musulmana nella penisola). Le forze economiche congiunte dei due regni diedero nuovo impulso alla crescita economica. Ferdinando e Isabella promossero una serie di esplorazioni marittime verso l'Oriente, per trovare nuove rotte commerciali dopo la caduta dell'impero bizantino (nel 1492 furono loro a finanziare la spedizione di Cristoforo Colombo).
L'INVENZIONE DEL MEDIOEVO Il concetto di medioevo si sviluppò nel XV secolo. La parola “medioevo” fu coniata dagli umanisti quattrocenteschi per indicare, in maniera dispregiativa, il periodo (secondo loro di decadenza) iniziato con la caduta dell'impero romano d'occidente e della civiltà antica. Questa cultura venne riscoperta proprio con l'umanesimo, che si caratterizzò per una rinnovata fecondità intellettuale. Nel XVI secolo, negli ambienti della riforma protestante, venne individuata l'epoca medievale nel periodo di decadenza dell'originaria spiritualità cristiana causata dal papato romano. Ignoranza, superstizione, oscurantismo e arroganza del potere ecclesiastico apparvero i tratti dominanti dell'epoca medievale, che in questa interpretazione coincideva perfettamente con la storia del cattolicesimo romano e terminava con la riforma luterana. Alle tesi dei protestanti risposero i cattolici, affermando i valori positivi portati dalla fede. Nel XVII secolo Georg Horn propose una distinzione periodica della storia dividendo l'età antica da quella moderna, individuando un'età intermedia che partiva dal 476 (caduta dell'impero romano d'occidente) al 1453 (caduta dell'impero bizantino). Il medioevo si trasformò da idea astratta negativa (riguardo la cultura e la religione) a periodo storico con grandi diversità sociali, economiche, religiose, culturali e politiche. Nel XVIII secolo l'illuminismo ribadisce la connotazione negativa del medioevo. Voltaire individuò nel medioevo l'età in cui nacque il feudalesimo, il modello di società basato sul privilegio, sull'autoritarismo e sull'oppressione. Un altro illuminista, Ludovico Antonio Muratori, invece notò come nei secoli successivi all'anno 1000 si passò da un periodo di decadenza a un periodo di progresso che avvicinò la storia all'età moderna. Il medioevo, quindi, cominciò a perdere il suo carattere di omogeneità. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, il romanticismo (la corrente opposta dell'illuminismo) riabilitò il medioevo esaltando il lato passionale, irrazionale e oscuro dell'uomo e della sua storia. La cultura romantica ricercò nel medioevo anche le radici dello spirito nazionale: ciò avvenne soprattutto in Germania e in Italia, che non avevano vissuto uno sviluppo politico e territoriale unitario. La cultura tedesca del XIX secolo esaltò il vigore dei barbari, i nuovi protagonisti della storia europea dopo la caduta dell'impero romano d'occidente (lo stesso motivo per cui gli umanisti italiani disprezzavano il medioevo). In Italia la ricerca di un'identità nazionale procedette con più fatica e contraddizioni. I movimenti risorgimentali videro il medioevo come l'epoca in cui la penisola subì le prime invasioni straniere ma anche come l'epoca in cui gli italiani riuscirono ad opporsi con successo agli imperatori tedeschi organizzandosi nei comuni. Oggi si tende vedere il medioevo come il periodo in cui si realizzò la fusione tra latinità e germanesimo. L'opera di periodizzazione è utile sul piano conoscitivo ma è anche arbitraria, e quindi sempre discutibile. I cambiamenti che si realizzarono dal V al XV secolo furono clamorosi in tutti i campi perciò difficilmente si può considerare il medioevo come un periodo unitario. Gli studi compiuti dai positivisti tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo escludettero dal medioevo i secoli successivi all'anno 1000 (le fasi di sviluppo), sempre a causa dell'idea di partenza che il medioevo fosse un'età di decadenza (quindi i secoli non negativi non potevano farne parte). Solo gli storici rimasti legati ai motivi della polemica cinquecentesca tra protestanti e cattolici continuarono a vedere il medioevo come un periodo unitario caratterizzato dall'elemento religioso. Un'altra interpretazione, data da Giovanni Tabacco, considera il medioevo un'età in cui vennero effettuato degli esperimenti in tutti i campi per trovare delle soluzioni ai problemi dell'esistenza e della convivenza civile. Una periodizzazione interna al medioevo è data dalla distinzione tra alto medioevo, dal V al X secolo, e basso medioevo, dall'XI al XV secolo. Questa distinzione ha perso importanza a causa delle ulteriori diversità tra questi secoli. Oltretutto la storia non procede compatta e i processi di evoluzione sono diversi a seconda dei campi di studio. Vengono fatte anche delle periodizzazioni basate su elementi geografici ma anche queste sono limitate, infatti hanno senso solo su determinate realtà territoriali. Un altro modo di periodizzare il medioevo consiste nella tipologia di fonti disponibili sulle quali gli storici possono basarsi per lo studio. Le fonti, infatti, non sono solo una fonte di informazioni ma anche un evento storico ed espressione di un'epoca.
GUARDAROBA MEDIOEVALE. (M.G.MUZZARELLI)
NEI COFANI. Il BAZAR di Harry Porre ordina a un mondo bizzarro e caotico. Questo per farci capire il medioevo. Bisogna sapersi servire anche dell’elenco degli inventari notarili, e della lista dei cataloghi di beni trovati nei bazar. Sbirciare negli elenchi dell’inventario dei notai serve per capire la società in cui quegli uomini e donne vivevano. L’inventario è una semplice descrizione dei beni posseduti; la stesura di questi cataloghi poteva essere la descrizione di quanto dato a un figlio al momento dell’emancipazione, quanto donato alla moglie o futura moglie; gli inventari per eccellenza sono quelli post mortem, stesi dopo la scomparsa di una persona che possedeva beni sui quali più di uno poteva avanzare diritti. Le città d’acqua tra il medioevo e l’età moderna hanno avuto ruoli diversi che cambiano di caso in caso. Ravenna nel 1300 e nel 1400: fase ascendente e discendente de i La Polenta, fino alla cessione a Venezia. Tra i Polenta vi era il lusso, ma non vi era nella popolazione. 1357: un tal Carnevale chiedeva in un apposito codicillo la restituzione di un certo numero di vesti che aveva donato, presumibilmente molto tempo prima, a quella che allora era la sposa a lui detinata. 1362: la nobile Beatrice, figlia di Forese Agolanti, lasciava i suoi averi, tra xcui gli abiti e gioielli al marito Matteo, a Misina moglie di Bonifacio Ariosti, alla sorella Lucia moglie di Francesco Ariosti, ad Alice moglie di Guido da Polenta, a Leta e a Sicinia giglie di Guido da Polenta. 1539: Andrea Guitti, lasciò i suoi averi (alcuni abiti) alla chiesa di San Francesco della Vigna. Nel 1279 vediamo che le donne si mettevano un velo sulla testa, era considerato un segno di pudore inizialmente, poi un segno di ricercatezza. 1441: Alvise fu chiamato a valutare il corredo di Margherita, sposatasi con Vangelista Codacci 1417-1468: Rimini era sotto il dominio di Pandolfo Malatesta. Alla morte di egli furono elencati dei capi nel suo inventario; esaminandoli se ne ricava che anche nella Rimini quattrocentesca gli uomini indossavano il farsetto che copriva il busto ed era solitamente imbottito. Il guardaroba più fornito era quello di un mercante: Ludovico Mengozzi: sopravestiti, mantelle, cappucci, vesti di panno d’oro. Quando Mengozzi morì, la vedova riuscì a recuperare, degli abiti e gioielli a lei assegnati, solo tre vesti (1 appartenuta a Ginevra, prima moglie del mercante). Camicia = tunica lunga per le donne e corta per gli uomini, provvista di maniche e fatta di cotone o di lino. 1339: il doge di Venezia, Francesco Dandolo, morì nel 1339, e nel 1341 venne stilato l’inventario dei suoi beni. Nel suo guardaroba appare la prevalenza del rosso acceso, che assumeva una particolare evidenza in una città dove era diffuso l’uso del nero e dove l’azzurro era caratteristico dei ceti popolari. Il doge possedeva 11 cofani. Nei cassoni erano custodite le pellicce; numerosi erano gli «orieri». Il doge e la sua famiglia avevano il compito di rappresentare lo splendore dello stato; nelle occasioni più importanti la moglie del doge compariva a fianco del marito indossando una sopraveste lucente di panno d’oro, sotto alla quale si poteva intravedere una tunica altrettanto preziosa decorata con argento e perle. La moglie poteva godere di alcune rendite sopra il dazio dei frutti per le sue spese. I capi di vestiario, indicati nell’inventario, sono numerosi e vari per l’uomo, mentre per la donna sono alcuni capi modesti; nell’elenco sono indicati anche arredi di cucina e attrezzi per il camino, ed altre cose. Inventario del 8 gennaio 1453: Inventario del nobile capitano Giorgio Ruzzini, che morì nella galea Bernarda durante il corso del viaggio che lo doveva portare ad Alessandria. Riguarda le cose del defunto trovate sull’imbarcazione all’interno di contenitori ordinatamente esaminati uno ad uno; vi erano vestiari, quaderni ed un unico gioiello (l’anello d’oro «de bulla cum zerto signo»). Giulia Leoncini, detta la Lombarda, cortigiana: Marino Sanudo la descrisse come «sontuosa meretrize»; morì nel 1543, lasciando ogni suo avere alla sorella che si spense nel 1569, a quella data fu compilato l’inventario. A parte perle, ori e sete, nel XVI secolo le meretrici e gli appartenenti agli strati più bassi della popolazione erano le uniche categorie di persone che, avendone i mezzi, potevano vestire come volevano; tutti gli altri veneziani, compresi i patrizi, erano tenuti ad osservare restrizioni. Nell’inventario compaiono: cuffie, fazzoletti da testa e da colo, bavari (pettorine), mutande di tela e di lana, molte camice, scarpe (in abbondanza), uno scrigno con monete ed alcuni oggetti preziosi. Colombina, ebrea bolognese, e altri correligionari: bisogna effettuare un confronto con due guardaroba. Colombina era una giovane ebrea che nella 2° ½ del 1400 sposò il nipote del ricco banchiere Abramo diRubino Sforno. I gioielli erano conservati in due stanze (una nella camera e l’altra nello studio). Alla morte del marito (1503), i discendenti fecero compilare un inventario dei suoi beni: 3 casse con biancheria da letto e da tavola, due con i capi da vestiario, in un’altra cassa una sopraveste vecchia «londrese» foderata di pelle nera e un’altra di pelliccia, un’altra cassa ancora conteneva mantelli, calze un vestito di seta ed una sopraveste. La normativa bolognese, emanata nel 1474 dal cardinal legato Francesco Gonzaga, si occupò per la prima volta anche degli ebrei. Tale normativa permetteva alle mogli di banchieri di indossare un guarda cuore di velluto che non fosse cremisi o morelli; se però era di panno, poteva essere di qualsiasi colore, se la veste di velluto era proibita potevano essere utilizzate le maniche di velluto. Le mogli e figlie di ebrei potevano portare solo due anelli e due verghette, maniche di velluto che non fosse cremisi o morello, nessuna veste di panno di grana, eccetto il guardacore, purchè non rosato. È irrisolta la questione del rispetto delle regole santuarie; bastava dunque che Colombina, o un’altra donna ebrea o cristiana, pagasse 25 lire e poteva sfoggiare tutte le maniche che voleva. Per conoscere il guardaroba di un altro ebreo bisogna spostarsi a Faenza. Il guardaroba di Lazzaro comprendeva nel complesso diversi mantelli neri frusti, alcuni gabbanelli di prezzo variabile. La descrizione delle vesti di Lazzaro era seguita nell’inventario dall’indicazione di alcuni crediti da riscuotere. Il forziere di un’altra ebrea, donna Ricca di Bevagna, fu esaminato nel 1484. Custodiva: mantelli e farsetti di lino e di lana, anelli, monili e cinture, mentre quello della figlia Graziosa, che sposò un mercante d’Assisi, conteneva cappe e giustacuori di lino e di lana, anelli e bracciali. Da prendere in esame il periodo che corre dal 1555 al 1565, quando a Comacchio, dominata dagli Estensi, fino al 1598, vennero assegnate oltre 100 doti di entità variabile da un minimo di 100 lire a un massimo di 1.000. La dotazione della casa a Comaccio spettava alla donna, alla quale era quasi interamente sottoposta la sfera delle attività domestiche. Spesso gli inventari dotali comacchiesi annoveravano una pelliccia, senza precisare di quale aanimale: nuova o usata che fosse, non era però mai di gran valore. Nella dote di 474 lire, la più cospiqua registrata nel 1556 e assegnata a una giovane di nome Lucia Tommasi, comprendeva una «cassetta nova con diverse robbe nove da sposa», ed altri capi di abbigliamento (una cotta, una saia gialla usata listata di saia rossa, due stanelle con busti e maniche). Cose di povera gente: le camice molto spesso erano l’unico abbigliamento della povera gente. Sulla «povera gente» scarseggiano le testimonianze: di conseguenza sono rari gli studi, così che si può davvero dire, con le parole di Giovanni Cherubini, che gli storici hanno contratto un grosso debito con questi ceti. La famiglia povera studiata da Cherubini era composta da una vedova, Ghisola, figlia di un frate di villaggio VICINO A Castrocaro e moglie un tempo di Menguccio di Casale, dalla figlia Betta e dal figlio Biagio che necessitava di tutela. Proprio per tutelare il minore, Ghisola fece gli atti necessari che prevedevano l’inventario stilato nel gennaio del 1384 dei beni del padre morto: una casa, un pezzo di terra coltivata a vigna di 15 pertiche, un pezzo di terra di 4 tornature che Biagio ha in proprietà indivisibile con la sorella, ed altri cose. I capi di biancheria erano pochi. Ricchi corredi milanesi: avevano un valore completamente diverso i corredi consegnati nel XV secolo ad alcune fanciulle agiate milanesi, rispetto a quelli delle contadine toscane. I cassoni nuziali dipinti di Iacobina Resti erano due grandi e due piccoli, e insieme valevano 16 lire. Limitando l’esame del contenuto dei cassoni milanesi ai soli capi di abbigliamento, si può rilevare che le camicie da donna presenti nell’inventario dei beni diIacobina, stilato nel 1420, erano relativamentee poche; ma nell’elenco dei beni assegnati nel febbraio del 1486 a Lucrezia Cittadini non ne compare nemmeno una. Mentre il sontuoso corredo di Lucrezia Borgia, donna di uno stato più elevato andata in sposa nel 1502 ad Alfonso I d’Este, ne comprendeva addirittura 200. I complementi erano numerosi e vari. Erano invece veri e propri capi di abbigliamento le sei pellande, sopravvesti di solito piuttosto ambie, elaborate e preziose, che valevano dalle 28 alle 89 lire. Le lunghe pellande erano utilizzate sia dagli uomini che dalle donne. Con le nozze di Giulia Pardo e Luigi Bessuzio siamo alla fine del XV secolo e si affacciano nuovi usi e nuovi termini. Nel 1428 viene emanato la seconda legislazione suntuaria milanese (la prima fu emanata nel 1396). Gli elementi caratteristici delle norme suntuarie milanesi sono la rarità e l’indulgenza: tratti che fanno pensare ad una precisa strategia cittadina. Si può cogliere l’intenzione di contemperare l’obiettivo della necessaria disciplina delle apparenze con quello della tutela degli interessi economici che ruotavano intorno alla produzione e al commercio di vesti e ornamenti. La descrizione dei guardaroba di Iacobina, di Lucrezia e Giulia ci possono far comprendere quali siano i gusti delle famiglie abbienti di Milano nell’ultimo secolo del Medioevo. Non diversamente dalle altre donne di altre città esse sfoggiavano maniche a più colori e acconciavano i capelli con lacci di seta a tinte vivaci, a formare quegli elaborati «coazzoni» (trecce di capelli, nastri e gioielli), tramandatici dall’iconografia. Nannina de’ Medici e altre spose fiorentine. Giovanni Ruccellai, sposato a una donna di casa Strozzi, concepì per i propri figli ‘un’avveduta politica matrimoniale: Pandolfo sposò una figlia di Bonaccorso Pitti, Bernardo prese in moglie una figlia di Pietro de’ Medici, Nannina. Le «cose e donora» della sposa in genere arrivavano nella casa del marito il lunedì successivo alla domenica delle nozze o per le nozze stesse, trasportato in «zane» o cassoni mandati dal marito. Quando Parenti sposò Caterina Strozzi, il corredo della fanciulla arrivò nella casa del marito entro forzieri dipinti da Domenico Veneziano (rimane solo il ricordo). Per quanto riguarda gli abiti e gli ornati donati dal marito rimanevano di proprietà del marito, salvo destinarli esplicitamente alla compagna tramite apposito atto notarile. Parenti fu costretto a disfarsi di tutto ciò che aveva donato alla moglie nei momenti di crisi. «A Filippo degli Strozzi […] vostra Alessandra». A. Strozzi rimase vedova nel 1435 e dovette allevare da sola 5 figli. Fece di tutto, quando rientrò a Firenze, a far cancellare l’esilio del marito per far rientrare i figli. Infatti i figli Gilippo e Lorenzo rientrarono nel 1466. Alessandra, nell’attesa del ritorno, scrisse ai figli lunghe lettere, non solo per quanto riguarda gli avvenimenti privati, ma anche quelli pubblici e tutto ciò che concerneva le spese familiari da sostenere (matrimonio della sorella Caterina, che doveva sposarsi con il figlio di Parente di Pier Parenti). Le spede di Marco Parenti, setaiolo. M. Parenti amava la moglie e desiderava compiacerla in ogni modo. Il suo «Libro dei Rocordi» incomincia nel 1447 con la costituzione della nuova famiglia. Parenti mariterà la figlia Lisa con Pietro Altovisi nel 1483, donandogli una ricca dote, non dissimile da quella della madre. Nel 1448 Marco fece confezionare per la moglie Caterina una saia bianca con 26 braccia di rascia, 9 braccia di guarnello bianco e 2 braccia e ½ di damaschino sempre bianco «per fodera d’intagli». Nel 1450 commissionò al sarto diversi capi per la moglie: una gamurra paonazza, il rifacimento di una saia bianca e azzurra e una gamurra verse; per il padre, per l’elezione ad una carica pubblica, fece fare una cioppa di rosato con le maniche aperte foderata di martora. Nel 1451 Marco ordinò per sé al solito sarto due cioppette scure, forse da lutto a seguito della morte del padre; l’anno successivo fece confezionare per la moglie una cioppa monachina con maniche a gozzi, e una di rosato foderato marrone con maniche aperte. Fa parte della politica di Marco dar tingere di nero una cioppa turchina. Corredi siciliani. Pace di Nicosia sposò uno speziale di nome Stefano. Il contratto di matrimonio fu redatto nel 1299: la donna portò in dote al marito numerosi immobili, un corredo di 50 onze, una schiava bianca, abiti. In Sicilia era anche in voga gli orecchini, dove l’uso si mantenne più a lungo che altrove per l’influenza delle mode greche. A Ferrara le ebree dovevano portare orecchini del genere, mentre a Bologna la legislazione sunturia fa riferimento esplicito agli orecchini solo nel 1568, quando il cardinale Gabriele Paleotti emana norme dettagliate che non trascurano cuffie, trecce e gioielli. Alla fine del Medioevo a Milano in ambiente di corte si usava portare «origini», cioè orecchini, con basasci, diamanti o altre pietre. Li si indossavano anche a Bologna, se gli Statuti cittadini del 1315, vietavano al futuro sposo di donare alla fidanzata più di un oggetto al giorno. Gli elenchi dotali che conosciamo includono in linea di massima solo poche vesti, anche quando a sposarsi erano fanciulle di famiglia agiata.
NELLE BOTTEGHE Mastri e garzoni. Gli artigiani medioevali hanno avuto un rolo importantissimo e molto attivo delle Arti. Sappiamo che la bottega era un luogo di produzione, ma anche un luogo di apprendimento, nel quale avveniva l’incontro tra artigiano e cliente e lo scambio di oggetti con denaro, ma soprattutto di conoscenze e abilità pratiche con desideri, gusti e disponibilità. La conoscenza di un capitale era fondamentale (come oggi) per l’apertura e il funzionamento di un’attività artigianale. Nel XIII secolo vi fu un importante cambiamento nel rapporto di apprendistato, in un secondo momento non si ottenne più l’autonomia. Questo fenomeno privilegiò i titolari delle botteghe, che poterono costituire vere dinastie artigianali all’interno delle quali si tramandarono le abilità e i segreti delle professioni, ed il vantaggio di una rendita di posizione economica e sociale di fatto preclusa ad altri. Le attività dei mestieri esercitati nelle città ci sorprende, soprattutto alla fine del Medioevo, infatti nelle denunce catastali pisane del 1428-1429 tale molteplicità balzava all’occhio (151 categorie professionali che vanno dall’acconciatore di barghieri fino allo zoccolaio e comprendono circa una trentina di attività diverse).
Il «civil» mestiere del tintore. Tomaso Garzoni (1549-1589) scriveva che essi servivano «alla vaghezza e ornamento di questo mondo» e il diletto dell’occhio, esattamente come i pittori, «leonde il mestiere ha del civile quanto all’effeto, se ben nel farlo ha dello sporco». Proprio da quest’ultimo elemento il mestiere venne considerato come riprovevole. Per poter effettuare un mestiere del genere bisognava avere una disponibilità finanziaria non indifferente. I maggiori tintori erano ebrei (detentori di capitali liquidi). In Sicilia gli ebrei ricevevano tali esercizi in affitto dalle chiese: nel 1211 Federico II rinnovò infatti alla chiesa palermitana i diritti su tutti gli ebrei della città e sulle attività tintorie da essi esercitate. Questa riserva agli ebrei fdu testimoniato da Beniamino da Tudela, originario della Navarra, che intorno alla ½ del XII decolo scrisse in ebraico un noto «Libro di viaggi». Tra l’XI e il XIII secolo avviene una profonda trasformazione nei riguardi dei mestieri. A Firenze alla fine del XIV secolo l’arte di Calimala (tintura dei panni) era fra le più potenti, ed era provato dalla legislazione suntuaria bolognese, emanata nel 1453 dal cardinale Bessarione, che divise la cittadinanza in sei categorie alle quali attribuì vesti e ornamenti appropriati: alle mogli e figlie di beccai, speziali, merciai o orefici vennero concessi ornamenti superiori rispetto a quelli consentiti a muratori, fabbri, tintori, che tuttavia erano tutt’altro che marginalizzati o disprezzati. Nel XIV-XV secolo le attività di tintori si applicava sia alla produzione indigena sia quella straniera; riguardava sete, lini,cotoni e impiegava materie tintorie che provenivano d’oltremare, come l’indaco, il brasile, la porpora, ma anche reperibili nella penisola italica come il guado, la robbia, lo scotano, lo zafferano e l’oricella. Nella tintoria avvenivano anche altre operazioni, come la sgommatura dei filati di seta, la torcitura e l’addoppiatura. Un setaiolo fiorentino, Andrea Banchi ricorreva ai servizi di tre diversi tintori operanti lungo l’Arno, ognuno dei quali aveva a propria volta diversi clienti. Abbiamo anche un’altra memoria di bottega, quella di Cecco d’Orso, il quale aveva compilato tre registri (1367-1369; 1377-1383). A partire dal XIV secolo è d’obbligo l’uso del guado per ricavare l’azzurro, come si può leggere in una rubrica deglui «Statuta fustaniorum» di Pavia. Un altro colore molto richiesto era il verde, dominava il colore scarlatto. Il colore rosso intenso era poi definito (dal XIII secolo) grana o chermes. Era importante per un tintore ottenere un bel rosso: questo significare aggiudicarsi una clientela, se non di alto rango, per lo meno di un buon livello sociale ed economico. Il rosso era uno status: era il colore da ricchi e tinta da festa. Il nero era un colore difficile da ottenere. Il nero indicava il lutto, alla partecipazione di eventi solenni adattissimo alle feste, alle celebrazioni nuziali e in generale alla vita di corte. A Venezia il nero fu il colore dominante fino alla fine del XVIII secolo. I tintori dovevano indicare nel loro registro i colori che creavano: il rosso dal cinabo, il giallo dal cumino, il giallo carico dal croco. Una volta ottenuta la tonalità desiderata dovevano fissarla con i mordenti tanninici (galla, scorza, foglia) o potassici (gromma, allume, cenere). Lo studio dei «Memoriali» di Landoccio di Cecco d’Orso ha consentito di individuare due distinte fasi della sua attività, verosimilment tipiche dello sviluppo di botteghe trecentesche simili alla sua. Fase 1: l’attività era costituita al servizio della clientela munita di persone che portavano a tingere qualche capo vestiario. Fase 2: metamorfosi nel servizio e nella clientela; il tintore senese prese a lavorare per conto di alcuni importanti lanaioli che gli commissionavano la tintura di pezze di lana, di filati e di lana in fiocco. Questo cambiamento comportò una razionalizzazione e uno sviluppo della bottega con conseguenti incrementi di profitto. Rivendite di panni. A confronto il Libro dei conti di Giovanni Canale e il Libro di bottega di Matteo di Vico. Questi libri costituiscono la base documentaria per un discorso sull’attività in generale delle botteghe di panni di lana nell’ultimo Medioevo. La produzione dei panni di lana prevedeva a Pinerolo, coma anche a Firenze, il decentramento della manifattura. Le stoffe di colore vivace erano poco numerose perché erano le meno vendute ed erano le più costose. Il periodo più florido di richieste è quello invernale, ma vi sono dei picchi anche in primavera e in autunno. Il giorno favorevole agli acquisti era il sabato, giorno di mercato. Dobbiamo considerare che l’andamento degli affari del parlemitano era differente: era maggiore del 20% circa. I colori usati erano: nero a Palermo, biavo a Pinerolo. Dopo il 1320 i panni di lana vennero considerati bene di lusso, destinata quindi a clientela esigente e facoltosa, e furono oggetto per Matteo di Vico di un esperimento commerciale da non ripetere. Non sempre a M. di Vico gli affari andavano bene, infatti dovette “allungare” le pezze per ottenere un utile a ogni vendita. La bottega di un mercante di seta. La richiesta di prodotti serici ebbe un incremento. Firenze diede molta importanza all’Arte della Seta o di Por Santa Maria. La seta richiede un lavoro minore rispetto ai panni di lana. Lavorazione della seta. La seta greggia proveniva dal Mar Caspio a dalla Spagna. Il lavoro veniva effettuato prima fuori dall’azienda e poi all’interno (smistamento delle matasse). I broccati e i velluti erano molto costosi. Andrea Bianchi per vendere il suo prodotto tentò prima alla corte aragonese (dove non ebbe molta fortuna), poii alla corte di Mantova, dove riuscì a collocare diversi tessuti tra cui il velluto alessandrino azzurro broccato con motivi a stelle d’oro. Conciatori e cuoiai Nicolò di Martino di Pietro faceva parte dell’Arte dei Calzolai di Perugia Nella 2° ½ del XIII secolo in ambiente ecclesiastico francese si pensava che i mestieri meno rispettabili erano i macellai, follatori, sellai, tintori e calzolai, come indicato negli Statuti sinodali di Arras. A Bologna, nel 1294, l’ordine era il seguente: cambiatori, mercanti, notai, cordovani eri, calzolai «de vacha», calegari, curioni e conciatori, merciai, fabbri, orefici, sarti, drappieri, bisilieri, pellicciai. Mentre a Cremona, nel 1313, l’ordine era il seguente: giudici e notai, mercanti, sarti e rigattieri, drappieri, tessitori di lino e merciai, tintori, pellicciai, fino a tavernieri e albergatori che chiudevano la processione. A Milano, nel 1385, abbiamo invece quest’ordine: fabbri ferrai, monetieri e zecchieri, sarti, calegari e calzolai, tessitori di lana, speziali, beccai, cimatori, tessitori di lino, correggiai, conciatori di cuoio, barbieri, rigattieri, formaggiai, spadari, sellai, osti, muratori e pellicciai.
VESTITI E COMPORTAMENTI A corte. Tra il XIV e il XVI secolo l’ambiente cortese era un luogo di primaria importanza, dove si giocava con l’ostentazione. Questo gioco non era solo a beneficio dei forestieri, ma era da considerare come collante interno, come elemento di rafforzamento dell’identità della corte stessa. Nella corte aragonese gli addetti avevano livree differenti a seconda del grado e dell’importanza del dipendente. Tra il 1450 e il 1471 Borso d’Este invece distinse la divisa con tre colori: bianco, rosso e verde. Le cronache cosa tramandano? Cortei sontuosi e feste straordinarie. Si possono fare numerosi esempi. Lucrezia Borgia fu condotta in bucintoro per il Po di Primaro fino a Ferrara e fece il suo ingresso a Ferrara nel tramonto del febbraio del 1502. Era accompagnata da un corteo di migliaia di persone. La seguivano anche le carrette cariche del corredo (portate sui muli). In alcune corti, nella quotidianità si viveva semplicemente, rispetto a quanto si poteva praticare nelle feste. Basti pensare alla corte estense della 1° ½ del XV secolo, al tempo di Nicolò III. Quindi: oculatezza e splendore erano ricorrenti. Le case signorili avevano in dotazione un coloro predominante, motti, emblemi (i Gonzaga aveva come simbolo l’impresa del cane, i motti per i capi di Valentina Visconti, la colombina per gli Sforza). Non sempre l’austerità era accolta da tutti, infatti essi ricercavano la frivolezza. (sobrio: Alfonso d’Aragona; frivolo: Ferrante d’Aragona). Nel 1368 Violante, figlia di Galeazzo II, sposa Lionello, figlio del re d’Inghilterra. Nel 1400 inoltrato si impianta a Milano una produzione di panni serici che nel giro di pochi anni diventa la fabbrica principale della città.